Rock Reynolds
La barca non sta affondando, ma di certo non è neppure in acque rassicuranti.
Sarebbe fin troppo semplice usare una metafora marinara per descrivere l’attuale situazione della Comunità Europea, sempre meno coesa su tutto, in particolare sulla divisione delle responsabilità tra i paesi membri nella gestione, appunto, dei crescenti arrivi via mare di immigrati dal continente africano. Ma Il paradiso dei ricchi (ChiareLettere, pagg 286, euro 18) di Leo Sisti non di questo si occupa, anche se, a ben guardare le cose, dall’atteggiamento che governa il mondo finanziario europeo sorgono parecchi dubbi sulla capacità complessiva da parte di questo gigante zoppo di affrontare crisi globali che potrebbero minare le fondamenta stesse di un progetto illuminato, concepito per arginare i nazionalismi e annullare ogni pretesa di superiorità razziale e militare dopo i disastri della Seconda Guerra Mondiale. Leo Sisti a questo libro complesso e documentatissimo ha lavorato per ben due anni, conscio di non potersi presentare non sufficientemente preparato all’attenzione di chi gli avrebbe immediatamente mosso le sue critiche ma ancor più consapevole di poter prestare il fianco a interpretazioni fuorvianti del suo lavoro di indagine. Il quadro che ne è esce è sconfortante, a tratti davvero desolante, ma il progetto Europa resta ed è anche grazie a libri lucidi come questo che si può sperare di restituirgli credibilità.
Cos’è che ha fatto scattare in lei la molla per scrivere questo libro?
Il mio ultimo libro era uscito nel 2012. Aveva per titolo Processo all’italiana (editore Laterza), scritto a quattro mani con il giudice Pier Camillo Davigo. Nell’anno successivo, dal 2013 fino al 2018, mi sono occupato, sull’Espresso, insieme ad altri colleghi, di paradisi fiscali. Si tratta di scoop che avevano un denominatore comune: tutti sotto la guida dell’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) network del quale faccio parte dal 2000, tre anni dopo la sua fondazione, e che attualmente conta 200 giornalisti appartenenti a 70 paesi di tutti continenti. Oggi ICIJ ha una notorietà globale. La sua più famosa produzione giornalistica è stata Panama Papers, pubblicata nel 2016 e premiata con il premio Pulitzer nel 2017. Ebbene, proprio con ICIJ e sempre sull’Espresso, nel 2014 abbiamo scritto molti articoli centrati sul presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che aveva preso possesso del suo incarico il 1° novembre di quell’anno. Quattro giorni dopo, più di 80 giornalisti di 26 paesi in rappresentanza di 40 testate, da Le Monde al Guardian, dalla Bbc al New York Times, hanno svelato chi era Juncker, premier del Lussemburgo dal 1995 al 2013, in realtà il vero padre padrone per circa trent’anni, essendo stato più volte ministro, anche delle finanze. Il nome in codice dell’inchiesta era LuxLeaks, dove “Lux” sta per Lussemburgo e “leaks” per fuga di notizie. Una fuga resa possibile da due ex impiegati di una delle più importanti società di revisione contabile del mondo, la PricewaterhouseCoopers, poi condannati. Questo l’antefatto storico. La vera molla per scrivere questo libro è scattata per il cosiddetto “follow up”: vale a dire verificare com’era andata a finire la nostra denuncia, motore per l’istituzione di una commissione speciale, battezzata Taxe con il compito di fare luce sulle storture e sulle deviazioni del sistema fiscale lussemburghese.
Come funzionano i “tax rulings”, accordi fiscali con l’amministrazione lussemburghese per far ottenere a grandi potentati economici un trattamento taglia-tasse?
È nell’era Juncker che il Granducato ha sviluppato per anni il sistema dei cosiddetti tax rulings, ovvero quegli accordi fiscali privilegiati con multinazionali di gran nome (Amazon, Ikea, Pepsi Cola, Google, Deutsche Bank, Amazon, ecc.), che, sfruttando il regime dell’amministrazione lussemburghese, a furia di deduzioni su operazioni finanziarie complesse, pagavano imposte ridicole, anche sotto l’1 %. Naturalmente tutto legale. Basti pensare che, dal 2002 al 2010, quando Juncker era premier, il suo paese ha attirato 220 miliardi di dollari. Con un corollario. I colossi protagonisti di
quegli affari hanno risparmiato, grazie ai favori di Juncker, centinaia di miliardi di dollari, poi trasferiti in lontani paradisi fiscali. Il meccanismo funziona così. Tramite la PricewaterhouseCoopers le multinazionali presentavano all’ufficio delle imposte dirette del Lussemburgo un prospetto (da venti fino a cento pagine), relativo a quelle operazioni finanziarie chiedendo quanto avrebbero dovuto versare di tasse. Il funzionario preposto, quasi sempre, approvava, con un ruling, definito anche decisione anticipata.
Com’è possibile che questi accordi che minano il sistema fiscale dell’Europa prevedano a livello locale la possibilità di tenere nascoste all’Europa stessa le informazioni che potrebbero consentire a una polizia fiscale comunitaria di smascherare certi giri loschi per quello che sono?
Semplice. Perché gli Stati (secondo Juncker quasi tutti quelli dell’Ue) e hanno fatto uso di questi ruling senza rispettare gli obblighi di scambiarsi le informazioni previste dalle leggi fiscali europee.
Siamo in Europa, non alle Bermuda, alle Cayman e nemmeno in Svizzera. Lussemburgo, Monte Carlo, Liechtenstein, San Marino, Malta. Quali altri paradisi fiscali in seno all’Europa stessa?
Beh, Svizzera, il Principato di Monaco, Lichtenstein e San Marino non fanno parte dell’Unione europea. Però Malta sì. E Malta, Lussemburgo, Irlanda, Belgio e Olanda di fatto sono paradisi fiscali in terra europea. Tutti specializzati nell’attrarre nei loro territori società che pagano imposte irrisorie. Nel 2017 c’è stato un tentativo di inserire proprio questi paesi in una speciale blacklist di paradisi fiscali. Tentativo sventato con una scusa ridicola: la “lista nera” si occupava solo degli Stati non europei. E quindi, solo di Bermuda, Cayman, ecc.
Come funziona il giochino delle caselle postali della città di Lussemburgo?
Un giochino facile facile. Basta registrare una società presso il registro lussemburghese. Che poi abbia sede in un palazzo dove ci sono migliaia di società, magari anche con un solo dipendente, o addirittura senza dipendenti, non ha importanza. Che il sistema lussemburghese sia redditizio, lo dimostra una sola cifra. Oggi, secondo i dati 2018 del Fondo monetario internazionale, il Gran-Ducato è il paese più ricco del mondo, con un pil pro capite di 120 mila dollari. L’Irlanda veleggia su 80 mila e l’Italia su 36 mila.
Juncker in diverse interviste cade dalle nuvole, scordandosi gli anni di favoritismi fiscali per aziende internazionali. Possibile che, a forza di raccontare bugie, uno creda che siano vere?
Juncker ha sempre negato di essere “l’architetto dei tax rulings”. Ma è smentito dai fatti. Lui, per esempio è stato l’artefice dell’intesa con Amazon, che nel 2003 ha stabilito il quartier generale europeo in Lussemburgo. Juncker sfrutta fino in fondo la debolezza e la vera stortura dell’Unione europeo: il sistema fiscale. Il vero problema dell’UE è il fatto che nelle materie fiscali vige la regola dell’unanimità. E quindi ogni stato membro può porre il veto e bloccare qualunque processo di cambiamento. L’avidità di singoli stati membri, oltre a Lussemburgo, anche Irlanda, Belgio e Olanda, ha creato un sistema nel quale, ognuno pensa per sé, a discapito di altri stati.
Ad esempio, l’Irlanda ha gratificato la Apple con meccanismi fiscali privilegiati, pagare imposte pari allo 0,05 % (proprio così: 0,05 per cento).
Questo è un aspetto di concorrenza sleale di fatto, praticata da paesi
che in sostanza si comportano come dei paradisi fiscali in terra europea. L’economista Gabriel Zucman valuta che dai conti dell’Unione europea manchino ogni anno all’appello 200 miliardi di euro, “sottratti” da Lussemburgo, Olanda e Irlanda, con i metodi sopra descritti. Denari che non entrano nelle casse comunitarie.
Se poi guardiamo ad alcuni risultati raggiunti dalla Commissione speciale Taxe sopra citata, queste ultime cifre aumentano ancor a di più. Infatti , se, oltre all’elusione fiscale, si calcola anche l’evasione fiscale, si raggiungono i mille miliardi all’anno di euro. Una montagna di soldi che sanerebbero i conti di molti stati dell’Unione. E, ad esempio, l’Italia non sarebbe costretta al balletto delle cifre da 0,2-0,4 % che deve trattare con Bruxelles per dare forma concreta al nostro bilancio.
Pierre Gramegna, ministro delle finanze lussemburghesi, ha sostenuto che “Il Lussemburgo… applica le stesse regole e gli stessi standard di ogni altro paese europeo… il sistema fiscale e il trattato contro la doppia imposizione sono in linea con questi principi…. Le pratiche degli accordi fiscali anticipati sono comuni in molti stati dell’Unione…” Insomma, della serie, tutti colpevoli, nessun colpevole?
Proprio così. Del resto Juncker, per cercare di svicolare, ha sempre sostenuto, come ho scritto nel mio libro: “Il caso LuxLeaks non riguarda il solo Lussemburgo. Non dobbiamo limitarci [a questo]. Dovremmo parlare di EuLeaks”. Il mio commento è stato: “Perché mai accostare il nome del Lussemburgo (Lux sta infatti per Lussemburgo) a un’inchiesta che bolla il suo paese come un paradiso fiscale? Molto meglio attenuare, allargando le responsabilità. Quindi, via LuxLeaks e dentro EuLeaks (European Union Leaks): le fughe di notizie, i leaks, non sono soltanto lussemburghesi, ma di tutta l’Unione europea. È la traduzione del principio: ‘Tutti colpevoli, nessun colpevole’”.
La posizione di Juncker è un paradosso moderno. Per fare gli interessi dell’Europa di cui è il massimo rappresentante, dovrebbe disconoscere ciò che ha fatto per un ventennio nel suo paese. Ma è davvero ancora credibile un’Europa che si faccia rappresentare da un personaggio del genere, soprattutto in un momento in cui il pensiero sovranista e il qualunquismo stanno prendendo sempre più piede?
Juncker è un navigatissimo uomo politico. Nel 1989, ad appena 35 anni, entra, come governatore, nel board della Banca mondiale. Due anni dopo, nel 1991, da ministro delle Finanze del Lussemburgo, fa parte del pool di politici che negoziano il trattato di Maastricht. Nel 1995 entra nel Fondo monetario internazionale. Quindi conosce tutto e tutti, in tutto il mondo. Sfrutta la sua abilità diplomatica. Poche settimane dopo aver preso possesso, nel novembre 2014, del suo nuovo incarico di presidente della commissione europea, è stato sottoposto a una mozione di censura a causa dello scandalo suscitato con le rivelazioni di LuxLeaks. Ma è riuscito a salvarsi a causa grazie a un lavoro di lobby che ha visto insieme i due partiti che dominano l’Europarlamento, i popolari del PPE, il suo partito, e i deputati di S&D, socialisti e democratici.
Per finire, quando ha scritto questo libro, le sarà passato per la testa che, in qualche modo, le sue parole sarebbero state cavalcate da sovranisti, leghisti, fascisti, antieuropeisti, ecc. Posto che per un giornalista indagare è un dovere, dall’uscita del libro le è già capitato di essere travisato? E ha escogitato un modo per respingere qualsiasi tentativo di adozione da parte di correnti che non la rappresentano minimamente?
Sì, qualcuno ci ha provato: “Ecco che tiri la volata a Salvini…”. Ho ben presente che
poteva esserci una certa reazione, quella di offrire il destro al sovranismo. Ma, discutendone con l’editore, abbiamo specificato nel risvolto di copertina: “È decisivo partire dal tema delle tasse per dare sostanza al dibattito. Per riconquistare un sentimento di appartenenza. Per rispondere ai populismi di destra che vogliono un’Europa chiusa e sempre meno libera”. Mi sembra molto chiaro. Inoltre, preciso che, quando finora ho fatto presentazioni del mio libro, ho sempre sottolineato la
distanza tra contenuti e “rivendicazioni” populiste sugli attacchi a Juncker. Sottolineo, ancora, che quando ho cominciato a lavorare su ricerca e stesura de Il paradiso dei ricchi, nel dicembre del 2016, il “fenomeno” Salvini era ben lontano. Infine, posso aggiungere che L’Espresso, con l’articolo-denuncia da parte del consorzio giornalistico ICIJ, come ho scritto, è uscito ai primi di novembre del 2014. Il 20 novembre poi L’Espresso pubblicava una seconda cover story su Juncker chiedendo le sue dimissioni da presidente della Commissione europea con il seguente titolo: “Quest’uomo è inadatto a guidare l’Europa”.