L'epica del naufragio: viaggio burrascoso tra realtà, cinema e letteratura | Culture
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L'epica del naufragio: viaggio burrascoso tra realtà, cinema e letteratura

Lo scrittore Enzo Verrengia, raccontando il caso delle due donne in balia dei marosi per cinque mesi, approfondisce il fatto e la metafora. Partendo dal "richiamo della foresta" che abbiamo dentro

L'epica del naufragio: viaggio burrascoso tra realtà, cinema e letteratura
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30 Ottobre 2017 - 19.11


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di Enzo Verrengia

Cinque mesi alla deriva su un natante dotato anche di velatura, troppo lontano da ogni possibilità di chiamare via radio i soccorsi. È l’avventura di Jennifer Appel e Tasha Fuiaba, partite dalle Hawai il 3 maggio scorso per raggiungere Tahiti. Il motore va in avaria e le due donne si trovano in balia del mare. La navigazione a vela non rimedia all’inconveniente e a luglio capiscono si essersi perdute, trovandosi in balia del Pacifico. Loro e i due cani a bordo, per fortuna, hanno scorte di cibo essiccato e un depuratore d’acqua. Questo assicura la sopravvivenza finché non vengono ritrovate il 24 ottobre da un peschereccio di Taiwan.
La notizia buca a stento i media, ma è presto sopraffatta dal bavardage, il perenne rumore di fondo che assorda insieme all’eccesso di sollecitazioni l’universo comunicativo post-moderno creando quello che Gillo Dorfles ha definito nel titolo di un suo saggio del 2008 “horror pleni”, l’orrore del troppo pieno, contrapposto all’horror vacui di epoche remote.
Invece la traversia della Appel e della Fuiaba merita analisi e rimandi, perché attesta che perfino nel 2017 resta la possibilità di venire esclusi via mare dal conglomerato planetario della civiltà finire naufraghi come agli albori delle grandi navigazioni. Tanto da richiamare un adagio del cantore oceanico per eccellenza, Joseph Conrad, tratto da Lo specchio del mare: «Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più complice della sua irrequietezza».
Che differenza c’è oggi tra chi finisce per avversità del caso lontano dalla civiltà e chi invece, per hobby, moda, noia o idiozia new age cerca deliberatamente la fuga verso territori e situazioni limite? Esistono ancora naufraghi autentici come Alexander Selkirk, al quale Daniel Defoe si ispirò per il suo Robinson Crusoe? C’è spazio per inventarsene variazioni contemporanee, come la scrittrice Shirley Conran in Selvagge, best seller degli anni ’80 su un gruppo di riccastre che si ritrovano allo stato primordiale in un paradiso tropicale, dopo essere scampate a un attacco terroristico? Ha forse più senso la satira italiota, tipo Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, diretto da Lina Wertmüller nel ’74 (vanamente imitato da Ivan Reitman nel ’98 con Sei giorni sette notti), Il signor Robinson – Mostruosa storia d’amore e d’avventura, di Sergio Corbucci, del ‘76, e Selvaggi, di Carlo Vanzina, del ’95? Con ansia più edificante, tiene alla prova del tempo la narrativa per ragazzi sulla capacità di badare a sé stessi, da La famiglia Robinson di Wyss a Il signore della mosche di Golding, passando per il Mark Twain di Tom Sawyer e Huckleberry Fynn e lo Jules Verne de L’isola misteriosa? Non sarà che la melassa hi-tech di cellulari, Internet e play-station ha impiastricciato l’esistenza di elettronica zuccherosa?
Il tema ispirò Robert Zemeckis per il suo film Cast Away, del 2001, che giungeva dopo la grande enfasi sugli sport di sopravvivenza e le grandi imprese di esplorazione sponsorizzate. Cui si aggiungeva la mania dei viaggi avventurosi che trasformavano il mondo in una disneyland in anticipo sulla globalizzazione. Una comitiva italiana starnazzante giungeva in canotto su una spiaggia delle Galapagos che l’agenzia aveva garantito mai percorsa da piedi umani… Ed ecco spuntare dalla sabbia i picchetti di un rudimentale campo di calcetto, cosparso di buste col marchio di una cooperativa emiliana! Non ci sono più mappe con la scritta “hic sunt leones” a indicare le terre inesplorate. Mentre, nell’età dei paradossi, basta perdersi in un quartiere degradato di periferia (il Bronx a New York, San Paolo a Bari, Scampia a Napoli, una banlieu a Parigi, ecc.) per ritrovarsi in gravi condizioni di rischio.
Il protagonista di Cast Away è un memento e insieme un monumento. Alla necessità di recuperare un bagaglio antropologico e culturale: quello dell’intelligenza capace di sfide, della necessità contrapposta al capriccio, all’avventura/spettacolo. Tanto più che la new economy potrebbe rendere chiunque, da un istante all’altro, naufrago all’interno delle fragili pareti costruite da un benessere che si disfa alla velocità delle quotazioni in borsa.
Ma gli stessi personaggi che hanno cavalcato l’onda delle grandi imprese in diretta mediatica, testimoniano di quanto rimanga indispensabile coltivare dentro di sé the real stuff, la vera stoffa, come la definisce Tom Wolfe nel titolo del suo libro più emblematico. Si prenda il caso di Ambrogio Fogar.
Né è stato lui a inventare il grande viaggio ad hoc per un pubblico avido di vivere emozioni forti in ruolo vicario, identificandosi in un individuo dai tratti comuni che può rappresentare chiunque. Gli antecedenti risalgono a molto indietro. Le prime ascensioni in mongolfiera coincisero in Francia con il trionfo delle gazzette. Pionieri del volo come il fotografo Felix Tournachon, in arte Nadar, amico di Verne, si lanciavano nelle ardite ascensioni con un occhio ai riscontri della stampa… preoccupati di ciò che all’epoca non si chiamava ancora share. Gli sponsor sottolineavano la loro presenza in modi ben più sfacciati degli attuali, perché i confini fra spazi pubblicitari e articoli non erano così marcati come oggi.
Il tutto non ha impedito la prevalenza di un’etica dell’esplorazione, consistente nella sincerità d’intenti e nello spirito di iniziazione con il quale si affrontava l’ignoto. Accanto all’avventura sponsorizzata e appannaggio dei media, non è venuta meno quella solitaria ed eroica, che non chiede consensi alle masse e si misura tutta nel titanismo di figure indimenticabili come Cook, Scott, Amundsen o, per tirare in ballo un italiano, Vittorio Bottego, pilastro dell’esplorazione africana.
È l’azione come pratica elementare e diretta che dovrebbe tornare genuina alla ribalta di una contemporaneità troppo piatta. Giovanni Soldini dichiara che in barca si rende conto «della quantità di cose non necessarie che uno ha dentro la testa nella vita quotidiana. Vivere in mare è vivere a contatto diretto con la natura. E questo significa soprattutto una cosa, cioè mettere il cervello a disposizione delle cose essenziali. Il mio cervello, quando sono in mare, si confronta con le cose vere.»
Agli inizi del XX secolo, lo aveva compreso Jack London. Quel “richiamo della foresta” è l’appello di un nucleo primevo della struttura umana, non localizzato negli spazi del Grande Nord, bensì nelle profondità inesplorate dell’essere. Là dentro, ciascuno dovrà dare prova di se stesso, da naufrago in mezzo agli altri.

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