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Il Coronavirus e la fragilità, ovvero dell’essere all’altezza dell’umano

L’evento del Coronavirus mette in discussione il modello di sviluppo basato sulla precarietà. E dobbiamo riflettere anche su chi vive e lavora senza garanzie né diritti

Il Coronavirus e la fragilità, ovvero dell’essere all’altezza dell’umano
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13 Marzo 2020 - 16.25


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di Marco Rovelli

1. E adesso, fuori dal passo di marcia a pieno regime (la marcia di un pieno regime), saremo perduti?
Come ritrovarsi senza quel passo meccanico del fare, fare, fare, il suo primo motore, senza quel regime che impone un passo dell’oca, uniforma ritmo, battito, respiro, strappando ogni cuore alla sua sede singolare, alla propria cavità?
Ritrovarsi perduti senza quel primo motore che tutto muove.
Ritrovarsi nell’essere perduti.
Ritrovarsi? Non c’è mai niente e nessuno da ritrovare.
Ri-creare. Uscire dal ritmo imposto e consegnarsi a una ri-creazione.
Creare è l’unica condizione dell’esistere. Del resistere, che è il perdurare dell’esistere.
Ecco l’evento che ci chiama, l’evento di cui si tratta di essere all’altezza, di esserne degni.
L’evento ci chiama dolcemente, con un suo humour sommesso perfino: e che sarà mai, uscire dal furore del fare, lasciarsi andare per qualche tempo alla deriva? Davvero tu temi questo scarrocciare, davvero questo silenzio produce in te terrori rumorosi?

È sempre una questione di intensità. (Non di pieni e di vuoti, non di desideri e di mancanze. Non c’è mai nulla che manca nel desiderio. Il vuoto è una condizione del pieno, come la diversità è un genere dell’essere). È solo una questione di differenti intensità, intensità singolari e differenti. Questa ri-creazione è un’occasione per uscire dalla monomania di una sola intensità, riverberante, cumulativa, assordante, confusa infine col rumore (intensità-capitale), un’intensità imposta che si confonde col senso proprio; smettere di essere un uomo a una sola dimensione.
Ri-creare altre dimensioni, gustare altre intensità. Le si chiamino come si vuole: fragilità, piccole cose, dispendio, radicamento, deterritorializzazione, libertà.
Oppure, chiamatela essere all’altezza dell’umano.

2. Un evento non esaurisce mai le sue chiamate. Questo evento ci chiama a mettere in discussione quell’intensità-capitale-primo motore in altri sensi. E a chiamarci sono tutti coloro che vivono questa crisi come una crisi materiale in senso economico, nel senso della produzione e della riproduzione. Chi lavora senza garanzie, chi lavora a chiamata, chi fa parte di quel quinto stato spossessato di diritti. Ecco che questo evento ci chiama a rimettere in discussione questo modello di sviluppo basato sull’insicurezza, sulla precarietà. Una fragilità da rivalutare in un senso, una fragilità da rifuggire in un altro senso.

Fragilità da rifuggire è, nel medesimo movimento, quella della “società che non esiste” (nel senso thatcheriano, l’ideologia propria della globalizzazione neoliberista, del suo motto: “la società non esiste, esistono solo gli individui”). Una società che non esiste produce i tagli al welfare e alla sanità come una conseguenza necessaria, e fatale. Fatale perché produce morte come un destino. Ma non è una fatalità, questa ideologia: è una deliberata condizione di pensiero, una deliberata organizzazione di forme di vita, che tocca a noi – a un noi ri-creato – sovvertire.
Cogliere l’opportunità, uscire dal furore del passo di marcia dell’intensità-capitale (direbbero i filosofi: l’Aiòn, il Kaìros contro il Cronos). Restituirsi al trans-individuale, alla dimensione trascendentale che ci sorvola, alla co-appartenenza. Co-sentirsi. Con-essere.
Essere all’altezza dell’umano.

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