La notizia vera, quella che dovremmo leggere su ogni giornale, è questa: la schiavitù non è finita. Ha solo cambiato volto. E ora ha anche un business plan. Invece sui giornali e nei telegiornali si parla di dazi, di escalation militari, di tweet geopolitici, del petrolio che sale e dei listini che scendono. Ma dello schiavismo moderno, quello reale, concreto, organizzato da reti criminali e alimentato da economie tossiche, quasi nulla.
Eppure, domani 30 luglio si celebra, come ogni anno, la Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani. È stata istituita dalle Nazioni Unite per ricordare al mondo che lo sfruttamento di donne, uomini e bambini non è solo un crimine, ma una realtà strutturata, sistematica e globale. Quest’anno il titolo è “La tratta di esseri umani è criminalità organizzata – Fermiamo lo sfruttamento”.
Quella della tratta è un’industria oscura che non conosce crisi, guerra o lockdown. Eppure, come ogni anno, la giornata passa quasi inosservata nei grandi media, non buca lo schermo e il grido delle persone trafficate, nelle piantagioni, nei bordelli, nei cantieri invisibili e visibili di tutto il mondo, resta sommerso sotto il rumore della sola cronaca. L’esempio è quello del cantiere di Napoli di pochi giorni fa. Eppoi, diciamolo, le Nazioni Unite appaiono sempre più come una nonna saggia che nessuno ascolta più. In tempi in cui la politica globale sembra uno show permanente, questa giornata, una delle tante ricorrenze promosse dall’Onu senza una narrazione forte, un volto noto, un’azione concreta visibile, non può che restare confinata ai margini.
Ancora più facile accantonarla in un’epoca segnata da conflitti multipli e narrazioni militarizzate, e far risucchiare l’attenzione dai fronti caldi di guerra di Gaza e di Ucraina e dai fronti economici ancor più caldi (mediaticamente) come quelli dei dazi trumpiani. Un’attenzione che conviene anche all’informazione, o meglio all’infotainment, che può così offrire una semplificazione della geopolitica con immagini forti: eroi e mostri.
La tratta, invece, è silenziosa, grigia, trasversale ma così reale che non si addice a essere raccontata con il piglio narrativo che seduce, quello preferito dai media. La tratta non ha un volto popolare, nessuna bandiera, nessun partito. È una tragedia “scomoda” che coinvolge le rotte migratorie, la prostituzione, l’agricoltura low-cost, l’edilizia illegale e, infine, i consumi di noi occidentali. Nessuno può sentirsi completamente estraneo alla tratta che diventa così uno specchio scomodo nel quale è meglio non guardarci dentro, troppo imbarazzante.
Infatti, la tratta di esseri umani non è un problema “degli altri”, ma un prodotto collaterale della nostra economia globale. Le vittime spesso finiscono nei bordelli delle metropoli europee, nelle piattaforme offshore del Golfo ma, senza sfogliare troppo l’atlante, toccano la nostra quotidianità nei cantieri edili sotto casa, nei campi di pomodoro, nelle raccolte di arance, olive, cipolle, fragole, patate, uva. E quando il consumatore finale potremmo essere noi, allora la notizia scotta.
Serve che si dica chiaro che la tratta è la mano che ci porge il crimine organizzato e che stringiamo ad occhi chiusi per portare avanti il nostro modo di vivere. Il 30 luglio non è solo una data ma una lente d’ingrandimento per capire che la libertà non è un diritto garantito, ma un privilegio in molte parti del pianeta e che ogni corpo sfruttato è una sconfitta per tutti.