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Che ruolo hanno i media nell'alimentare i fenomeni di bullismo?

Prendendo in considerazione il caso della baby gang femminile senese abbiamo discusso assieme ad Alessandro Prato del ruolo giocato dai media nell'alimentare tali casi

Che ruolo hanno i media nell'alimentare i fenomeni di bullismo?
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5 Maggio 2022 - 11.27


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Di Agostino Forgione

Da quando le Forze dell’Ordine hanno stanato la baby gang senese tutta al femminile, che operava a danno delle coetanee, il caso è subito salito alla ribalta della cronaca nazionale. La notizia è stata immediatamente ripresa dalle maggiori testate, che hanno ben spiegato il modus operandi delle minorenni. Prima gli insulti sui social, poi le violenze dal vivo consumate in pieno centro, riprese e diffuse in rete per schernire ulteriormente le vittime. Ciò su cui, invece, non è stato speso dell’inchiostro, riguarda l’influenza esercitata dai media nello sviluppo di tali dinamiche. Ne abbiamo discusso con Alessandro Prato, professore di Filosofia e teoria dei linguaggi presso l’Università di Siena.

Sebbene delle forme di sopraffazione o di bullismo siano sempre esistite, la novità riguarda il ruolo che i new media, in particolar modo i social network, giocano nello sviluppo di questo tipo di fenomeni. È questa la prima riflessione nata dal nostro incontro. I social, ponendosi come intermediari e distanziando gli aggressori dagli aggrediti, contribuiscono infatti a creare un’asimmetria tra i due. Ciò comporta che sia più facile per i primi depersonalizzare i secondi, rendendoli bersaglio delle loro invettive. Una considerazione, questa, che può essere estesa a tutti i fenomeni di hate speech che sono ampiamente presenti sulla rete.

Nel caso della baby gang senese, e in tutti quelli analoghi, un altro aspetto da tenere in considerazione è che quando si passa alle aggressioni fisiche queste vengono prontamente registrate. Un dettaglio che, sebbene possa passare in secondo piano, in realtà rivela una precisa volontà degli aggressori: quella di diffondere le immagini consapevoli dell’approvazione del pubblico a cui sono destinate. Un fenomeno ben noto agli studiosi di comunicazione, che Prato ha ben esemplificato “Normalmente si pensa che queste azioni siano figlie di una dialettica che ha solo due attori: chi compie l’azione e chi la subisce. In realtà normalmente non è così, trattandosi di una struttura triadica. Lo scontro viene messo in atto a uso e consumo di una terza persona, nella fattispecie lo spettatore. Ciò è molto importante, perché significa che se non ci fosse una terza persona che approva lo scontro, facendosene complice, probabilmente quest’ultimo perderebbe di interesse”. Quello della “macchina del fango” è infatti un meccanismo che per funzionare ha necessariamente bisogno del consenso di una platea che, anche involontariamente, si fa corresponsabile dello scontro a cui assiste.

Un fenomeno, quest’ultimo, riconducibile a un altro più generico che contraddistingue la dialettica odierna dei media mainstream: quello della spettacolarizzazione del conflitto. Lo scontro è infatti diventato il perno su cui ruotano interi format e su cui si basa, spesso ottenendo buoni risultati, una buona fetta della comunicazione pubblica. Ne è un evidente esempio quella politica.  Sempre Prato commenta a riguardo: “Direi che queste dinamiche del conflitto sono favorite dai media tradizionali, che abituano il pubblico a un forte elemento emotivo e a una spettacolarizzazione dello scontro tra due modelli antitetici.  Invece di indagare la dimensione dei fenomeni e le cause che li hanno prodotti – cercando di capire quali sono le azioni da intraprendere per governarli – i media spesso si limitano ad esasperarne gli aspetti conflittuali per ottenere audience e la partecipazione del pubblico”.

In conclusione dunque, fermo restando il biasimo verso le ragazze che hanno perpetrato questi atti, si può dire che l’accaduto sia figlio di dinamiche sociali e comunicative complesse, di ben ampio respiro, che spesso ignoriamo e di cui anzi alle volte ci facciamo ignaramente complici. C’è da chiedersi perché dei ragazzini arrivano a compiere dei comportamenti così abbietti e quanto questi dipendano dal modello sociale e culturale proposto dal discorso pubblico.  Una domanda che, in primo luogo, dovrebbero porsi proprio i professionisti della comunicazione.

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