di Lucia Mora
Una volta, in aula, uno dei professori a cui più ho voluto bene disse: «La musica è una forma di pensiero». La trovai una dichiarazione così profondamente vera nella sua semplicità che ancora oggi la considero la miglior definizione di “musica” possibile.
Solo partendo da una definizione del genere si può realizzare fino in fondo l’immensità di Johann Sebastian Bach, uno dei più grandi geni musicali di tutti i tempi. La musica prodotta da Bach è effettivamente pensiero puro e, ascoltandola, ci si stupisce dell’intelletto umano e delle vette che è in grado di raggiungere. Per rendere l’idea, prendo in prestito le parole di un tizio qualsiasi, un certo Goethe, il quale ebbe a definire la musica di Bach «un colloquio di Dio con se stesso, poco prima della creazione».
Ora che ho finito con le definizioni commoventi, possiamo passare all’analisi di due capolavori (difficile non trovarne tra i suoi lavori, in realtà) di Bach.
I concerti brandeburghesi (1717-23)
Ovvero le sue opere orchestrali più conosciute. Sei concerti così denominati per via della dedica al margravio Cristiano Ludovico di Brandeburgo-Schwedt presso cui Bach sperava invano di trovare impiego. C’è un aneddoto riguardo a quest’opera che mi fa sempre sorridere: lo stesso compositore giudicò la difficoltà di esecuzione tale da sapere che nessuno al tempo avrebbe eseguito i concerti e, per questo motivo, redasse il manoscritto quasi svogliatamente, con poca cura. I suoi lavori sono in effetti così complessi che anche i successori – Chopin, per esempio – li usavano per prepararsi prima di un concerto, sapendo che se fossero riusciti ad affrontare quel livello, allora poi il resto dell’esecuzione sarebbe stata in discesa.
In questo caso, assimilata la lezione dei modelli italiani (Vivaldi e Corelli, per fare due nomi), l’intenzione di Bach era fornire una sorta di campionario di stilemi virtuosistici di alto livello rivolto agli esecutori, affinché potessero attingerne. Infatti, sono concerti scritti per ogni strumento dell’epoca: due per ottoni (corno da caccia e tromba), due per flauti (dolce e traverso) e due per i principali strumenti per musica da camera (tastiera – nello specifico clavicembalo – e archi).
Il mio preferito è il quinto. Il “Concerto n. 5 in re maggiore” è, fra tutti, quello che porta novità storiche più importanti: integra all’interno di una struttura da concerto grosso una parte solistica preponderante, scritta per uno strumento che attorno al 1720 non aveva affatto status solistico, cioè il clavicembalo (che invece Bach adorava, come vedremo qui sotto).
Il clavicembalo ben temperato (1722-44)
Nel periodo trascorso a Weimar, Bach si dedicò alla musica contrappuntistica dando veramente il meglio di sé. Ne è la prova il “Clavicembalo ben temperato” che, almeno per chi scrive, è l’espressione più alta della sua genialità. Si tratta di due libri di “Preludi” e “Fughe” che risalgono a momenti diversi della vita del compositore: il I libro fu completato nel 1722 durante il periodo di Köthen, mentre il II venne compilato tra il 1740 e il 1744 quando risiedeva ormai stabilmente a Lipsia; l’impianto dei due libri è però perfettamente analogo e, pertanto, si può parlare di due parti della medesima opera.
Ogni libro comprende un preludio e una fuga in ciascuna delle 24 tonalità maggiori e minori, per un totale di 48 meraviglie. Un lavoro monumentale non solo per l’uso magistrale del contrappunto, ma anche per l’aver esplorato, per la prima volta, l’intera gamma tonale, la moltitudine delle scale e degli intervalli. “Ben temperato” si riferisce invece al temperamento dello strumento: alcuni temperamenti antichi, precedenti a Bach, non erano sufficientemente flessibili da consentire di muoversi attraverso le diverse tonalità.
Difficile spiegare la complessità del contrappunto in poche righe (mi si perdonerà l’approccio un po’ semplicistico); per farla breve, quando a una data melodia si combinano contemporaneamente altre melodie indipendenti, vocali e strumentali, si crea un contrappunto. I lavori contrappuntistici di Bach sono intrecci straordinari dove non fai in tempo a godere della bellezza di una melodia che subito ne spunta un’altra, altrettanto sublime (ecco il perché di quel “lavoro monumentale”). Beethoven, suo devoto ammiratore, aveva tutte le ragioni per definire Bach “Urvater der Harmonie”, cioè il padre dell’armonia.