Dopo circa un anno e mezzo siamo tornati a teatro. Incredibile! Alla Pergola di Firenze, dove andava in scena un’opera di Monteverdi, Il ritorno di Ulisse in Patria. L’allestimento era magnifico, i cantanti bravi, l’orchestra – liuti, spinetta, viola da gamba … – eccellente. Tutto molto bello.
Certo, rispetto all’era pre-covid c’erano delle visibili differenze.
Le poltrone in platea men che dimezzate e distribuite in modo da garantire gli spazi necessari, i palchi sguarniti, e di conseguenza biglietti molto cari (a parte il loggione, immediatamente sold out): ma si capisce, non potevano fare diversamente. E poi magari una volta ce la si può fare, nell’attesa che anche i teatri tornino progressivamente ad essere accessibili, da tutti i punti di vista.
Insomma, tre ore di sogno, pareva d’essere tornati indietro nel tempo, quando esperienze come questa erano non dico la normalità – perché il teatro, la Pergola, l’opera, non sono mai normalità, da nessun punto di vista – ma diciamo che erano la gioia, la serenità a cui si poteva almeno aspirare.
Solo che dopo lo spettacolo, inevitabilmente, siamo usciti. E anche fuori, man mano che ci si avvicinava al cuore più celebrato della Città, era tornata la normalità. Frotte di giovani e meno giovani ammassati e senza mascherina, strade sporche, sparse di fogliacci e bottiglie di plastica, la Piazza del Duomo e le stradine limitrofe pervase da un grato odore di fogna, i ristoranti con i camerieri urlanti e i menù di plastica – con sopra maldestre fotografie dei piatti – musiche disparate che rimbombavano attorno al Duomo mescolandosi in una cacofonia notturna che solo Dio (se si occupa di queste cose) sa come facciano gli abitanti a sopportarla.
Insomma, era tornata la normalità. Ma era questa la normalità a cui si doveva tornare?