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Matrimoni combinati e monache per forza. Una lunga storia di violenze

Stuoli di giovanissime sono state sacrificate agli affari di famiglia, alla necessità di mantenere in poche mani il potere politico ed economico, di consolidare legami d’affari. E poi l'onore....

Matrimoni combinati e monache per forza. Una lunga storia di violenze
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Gabriella Piccinni Modifica articolo

6 Giugno 2021 - 19.34


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Lascia senza parole che la vita delle donne abbia ancora tanto a che fare col sangue. Ultima solo in ordine di tempo ci sgomenta la vicenda, della quale già si intravede il tragico epilogo, di Saman Abbas, la diciottenne che sarebbe stata uccisa dallo zio su ordine dei genitori per “risarcire l’onore” della famiglia compromesso dal suo desiderio di vivere in modo autonomo, in Italia, la propria vita affettiva, rifiutando con decisione il matrimonio combinato con un cugino, in Pakistan. 

Poteva restare lontana dalla famiglia, Saman, come le era stato consigliato. Non è stata in grado di farlo, di tirar fuori quella forza così immensa che le occorreva per cancellare, lei sola e piccola, secoli di sopraffazione all’interno di quella struttura che dovrebbe essere la più protettiva di tutte e che si chiama appunto famiglia.

Anche la storia della nostra evoluta Italia ha conosciuto fino a tempi recenti donne divenute mogli per forza, invece che per amore. Per la legge italiana fino al 1981 donne giovanissime potevano essere costrette dalle famiglie addirittura a sposare il proprio violentatore perché solo in quell’anno è scomparso dal nostro ordinamento l’istituto del “matrimonio riparatore”, che prevedeva l’estinzione del reato nel caso in cui lo stupratore di una minorenne accondiscendesse a sposarla. E badate che erano già passati ben 14 anni da quando Franca Viola, sostenuta dalla famiglia, si era ribellata alla proposta di riparazione. Solo in quello stesso anno fu abrogata anche la norma che faceva sì che un delitto perpetrato per salvaguardare l’onore fosse sanzionato con pene attenuate, perché l’offesa arrecata da una condotta “disonorevole” costituiva una provocazione talmente grave da giustificare una reazione. 

Per onore. Sentite come suona male, in questo contesto, questa parola? E poi l’onore di chi? Di lei, di lui, delle loro famiglie?

Anche il nostro passato ha conosciuto tante mogli e monache per forza, e lo ha fatto perfino in quel tempo che in tanti amano chiamare ampollosamente rinascimento, quando tanti individui giovani furono messi di fronte a ruoli sociali impegnativi e vincoli familiari e comunitari ai quali era necessario sottomettere le proprie scelte, anche affettive. In particolare, a tante giovani donne sono stati per secoli proposti/imposti il matrimonio combinato o il convento per motivi che non avevano niente a che fare con le loro scelte personali o spirituali. Stuoli di giovanissime, soprattutto dei ceti medio-alti, sono state sacrificate agli affari di famiglia, alla necessità di mantenere in poche mani il potere politico ed economico, di consolidare legami d’affari. Accadde anche a Marianna – poi divenuta suor Virginia di Leyva e che noi conosciamo come Gertrude, la monaca di Monza, grazie al racconto che ne fece Manzoni – che alla fine del ‘500 subì una vera e propria violenza finanziaria condotta senza alcuno scrupolo per consentire il mantenimento delle rendite del consistente patrimonio della madre che era figlia di un ricco banchiere di Monza.

Una lunghissima catena di donne che hanno opposto un rifiuto è finita in un gorgo di sangue. Il proprio, quando genitori e parenti le hanno soppresse – come nel caso di cui si parla in questi giorni – per nascondere quella che hanno creduto la vergogna più intollerabile, la loro ribellione alle regole. Quello altrui, come accadde a Virginia, spinta fino all’omicidio e all’ infanticidio dall’essere stata costretta a subire una vita non scelta e priva di rapporti affettivi.

Gli archivi di età medievale e moderna traboccano, proprio come i giornali di oggi, di episodi di quotidiana violenza familiare. Lo dimostrano le numerose securitates (cauzioni in denaro) sottoscritte davanti al notaio da mariti maneschi per convincere le mogli fuggite a tornare a casa; le attestazioni di matrimoni contratti sotto coercizione e solo per ubbidire al volere paterno o fraterno;  le suppliche di donne costrette a farsi monache o a sposarsi senza che lo valessero e che solo alla morte del padre trovavano la forza di chiedere di tornare allo stato laicale o l’annullamento delle nozze o che raccontavano di matrimoni non consumati per il loro netto rifiuto al sesso, dopo aver conosciuto gli uomini cui erano state promesse. 

Naturalmente sappiamo bene che ogni società ha una propria visione del mondo, diverse categorie politico-economiche, morali, modi di intendere la ricchezza, il lavoro, il sesso, la famiglia e altri aspetti fondamentali della vita personale, sociale e di relazione. Tuttavia, mi pare che nella nostra storia profonda siano scritti i nostri sogni, i nostri successi, le nostre creazioni e sperimentazioni, ma anche i nostri attuali nodi irrisolti, le crisi e i fallimenti; e che quando manchi una piena percezione di tutto questo ogni dibattito divenga fragile e astratto e ogni azione di contrasto debole. 

Non ho una conclusione da proporre. Sento solo il bisogno di meditare sulla violenza psicologica che è nata e nasce nei luoghi che dovrebbero invece proteggere, nella famiglia e nella comunità, che ha tolto a Saman la possibilità per opporsi all’ultimo passaggio, quello fatale. 

Perché non si tratta di scoprire una tragica banalità – ossia che in molte culture e tempi le donne sono state oggetto di violenze – ma di aiutare a comprendere come, in società pure diverse, certi simili comportamenti violenti si instaurarono, furono legittimati e codificati ed eventualmente combattuti. Perché per combatterli ancora, dopo aver cercato i colpevoli e averli puniti, c’è da fare in modo che questa catena di sangue si interrompa per esaurimento di motivazioni.

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