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La tv del dolore non conosce crisi

Da Alfredino Rampi al conflitto bellico in Ucraina, oltre quaranta anni di televisione con palinsesti televisivi conditi da trasmissioni che raccontano per lo più tragedie, con un unico obiettivo: catturare più telespettatori possibili

La tv del dolore non conosce crisi
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7 Luglio 2022 - 10.36


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di Giuseppe Rizza

Guardando la televisione, nello specifico i tg, accade spesso di imbattersi in terribili casi di cronaca nera oppure in racconti di vicende centrate su situazioni di disagio individuale o sociale. Omicidi, violenze gratuite, aggressioni, abusi, malattie aggressive, incidenti stradali e tanto altro ancora; il leitmotiv è sempre il medesimo: la narrazione del senso di sofferenza vissuto dai singoli, nelle famiglie o nelle comunità. È la «tv del dolore», incentrata sulla spettacolarizzazione del dramma personale o collettivo. Ebbe inizio mercoledì 10 giugno 1981 con la caduta in un pozzo di Alfredino Rampi: in quell’occasione attraverso quaranta ore di diretta la tv trasformò una tragedia in un circo in nome del «diritto di cronaca».

Da allora in avanti è stato un crescendo. E ancora oggi tale modo di fare televisione trova sempre più appassionati alle cosiddette bad news: una grande fetta di telespettatori sembra manifestare un’«assuefazione al dramma». Gli psicologi hanno definito questa tendenza con il neologismo inglese doomscrolling, con lo scopo di assegnare un nome alla ricerca compulsiva di cattive notizie online scorrendo (scrolling) sullo schermo del nostro smartphone per informarci sulle sventure (dooms) che accadono nel mondo. Un’abitudine che si è accentuata con la pandemia prima e con la guerra in seguito.

Nel corso degli ultimi tre anni abbiamo assistito a un bombardamento mediatico legato all’epidemia da Covid-19, all’insegna di quello che definirei uno «storytelling del dolore». Il bollettino medico giornaliero accompagnato spesso da immagini raccapriccianti (chi non ricorda i mezzi militari carichi di bare a Bergamo?) ha incollato allo schermo milioni di cittadini per gran parte delle loro giornate. Un tipo d’intrattenimento mediatico incentrato appieno sul dramma, che senza alcuno scrupolo ha diffuso ansia, malessere e preoccupazione in nome dell’audience. È davvero triste constatare ciò, ma lo confermano gli stessi palinsesti televisivi stracolmi di trasmissioni incentrate sulla tragedia.

Dal 24 febbraio dell’anno in corso il conflitto russo-ucraino è balzato agli onori della cronaca, sbaragliando la pandemia. Ciò che non è variato neanche in minima parte è il modo di raccontare gli eventi: ancora una volta ogni giorno assistiamo alla conta di morti e feriti, quasi facendo a gara per svelare i particolari più macabri e gli orrori insabbiati della guerra. Pullulano immagini e video che ritraggono sofferenza e disperazione nei volti degli incolpevoli abitanti di quei luoghi. La nostra «dieta televisiva» è intrisa di dolore da troppo tempo.

Sono convinto che tale meccanismo narrativo abbia una notevole cassa di risonanza nella vita e nella quotidianità di ognuno di noi. L’escalation di violenza, a tratti gratuita e in costante aumento, cui assistiamo in ogni angolo del globo credo sia un effetto collaterale incontrollabile dell’esposizione costante e reiterata alla tv del dolore, quasi come un cane che si morde la coda in un loop esistenziale secondo cui «dolore genera dolore».

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