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Il giro del mondo in una vita: il viaggio impossibile di Karl Bushby

Dalla Terra del Fuoco all’Inghilterra senza mai salire su un mezzo di trasporto, per completare l’impresa più lunga e folle della storia dell’esplorazione. Un’avventura iniziata nel 1998 da un parà britannico.

Il giro del mondo in una vita: il viaggio impossibile di Karl Bushby
Karl Bushby
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28 Giugno 2025 - 14.04


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Ci sono uomini che inseguono sogni più grandi di loro e poi c’è Karl Bushby, ex paracadutista britannico, che da oltre venticinque anni cammina. La sua scarpinata non è una metafora e non lo fa nemmeno per sport. Cammina davvero e cammina per tornare a casa, a piedi, partendo dalla fine del mondo. Nel 1998, lasciò la Terra del Fuoco, punta meridionale dell’America Latina, con un obiettivo che nessun essere umano aveva mai realizzato: tornare in Inghilterra senza mai utilizzare un mezzo di trasporto seguendo il profilo dei continenti, passando per giungle, deserti, ghiacciai e oceani. La chiamò Goliath Expedition, citando il gigante biblico. Un’impresa tanto mostruosa e pericolosa quanto poetica. Un uomo contro il pianeta, con le sue gambe come unica propulsione e la determinazione come unica difesa.

Era il primo novembre 1998 quando Bushby partì da Punta Arenas, in Cile, con il suo zaino. I primi chilometri erano solo l’inizio di una marcia destinata a durare una vita. La prima vera grande barriera fu il Darién Gap, la fetta di giungla selvaggia che separa Panama dalla Colombia, che in quasi cinquecento anni nessuno aveva mai attraversato via terra in modo continuativo e legale. “Camminavo nell’acqua fino alla vita, dormivo sugli alberi per evitare gli insetti velenosi e il fetore della terra. Ogni fruscio poteva essere un boa, o peggio un uomo armato”, ha raccontato. La giungla era viva e ostile. In quella zona operavano ancora le FARC, i cartelli della droga e gruppi paramilitari. Non vi era alcun sentiero, solo mappa, bussola e istinto.

Dopo settimane nella foresta, nuotando nei fiumi per sfuggire alle vedette, affamato e febbricitante raggiunse la parte panamense del confine. Ma la salvezza non arrivò: fu arrestato dalle autorità locali, i funzionari, sospettando che fosse una spia o un contrabbandiere. Lo trattennero per 18 giorni. Raccontò più volte di aver vissuto in quei momenti la sensazione di essere del tutto incompreso: “Avevo marciato tra serpenti e mine solo per finire dietro le sbarre, con lo sguardo vuoto di chi non crede a ciò che dici. Mi sembrava un paradosso beffardo”.

Quando riuscì a essere liberato la sua marcia riprese subito e risalì l’America Centrale, poi il Messico e gli Stati Uniti, sempre a piedi. Ogni confine era una lotta con i visti, ogni paese una sfida nuova. Quando arrivò in Alaska sapeva che lo aspettava una delle imprese più estreme: l’attraversamento a piedi dello stretto di Bering. Per farlo doveva attendere l’inverno, quando il ghiaccio lo avrebbe reso percorribile ma sarebbe stato al contempo vivo, mutevole, instabile. Con lui c’era l’avventuriero francese Dimitri Kieffer. Impiegarono 14 giorni per percorrere circa 240 chilometri di banchisa mobile, dormendo in tende piazzate su lastre che scricchiolavano e si frantumavano sotto i loro corpi. “Sono le 04:00… non siamo su una lastra particolarmente grande e intorno a noi si sentono scricchiolii ovunque. All’improvviso, onde d’urto scuotono la tenda. Se non solo senti il ghiaccio, ma percepisci ogni suo movimento, è un chiaro segnale che le cose non stanno andando affatto bene” (passo tradotto dal suo diario che credo renda meglio in lingua originale). Così annotava, mentre cercava il sonno su una zattera di ghiaccio che si poteva spezzare da un momento all’altro, sospesa sopra le acque gelide del Pacifico.

Karl Bushby in Siberia

La Russia non accolse il suo sforzo come avrebbe voluto; appena sbarcato in Siberia fu arrestato di nuovo perché l’ingresso era avvenuto fuori da un punto di frontiera ufficiale. La milizia lo trattenne in cella, lo interrogarono, cercarono di capire chi fosse davvero. Negli anni seguenti, Bushby fu ostacolato dai regolamenti russi, ricevendo solo visti temporanei da rinnovare ogni 90 giorni, obbligandolo a lasciare il paese e poi rientrare e ripercorrendo chilometri già battuti. Era un Sisifo moderno, condannato a ripetere la stessa marcia, nella stessa tundra. Quella tundra siberiana divenne la sua seconda prigione. Camminava in inverno perché in estate la terra si trasformava in un mare di fango e zanzare, i fiumi erano impassabili, ma anche l’inverno non era uno scherzo con i suoi -40°C, il vento polare e la solitudine assoluta. Dormiva in tende sotto metri di neve, portando con sé tutto il necessario su slitte. “Tenersi in movimento aiuta. L’inattività sembra solo aggravare i problemi. Si ha troppo tempo per rimuginare”, scriveva. Muoversi era una necessità fisica e mentale, l’unico modo per non crollare era continuare.

Nel 2024 dopo aver attraversato tutta l’Asia centrale raggiunse il Mar Caspio ma le rotte terrestri, sia via Russia che via Iran, erano ormai impraticabili in ragione del clima politico. Nessun paese gli avrebbe garantito l’ingresso; e allora decise di scegliere l’impossibile: avrebbe attraversato nuotando. Trascorse mesi ad allenarsi in un bacino chiuso, pur odiando il nuoto. “Non sono assolutamente un nuotatore, e nuotare non mi piace per niente” Alla fine, ci riuscì: attraversò i 288 km tra Kazakistan e Azerbaigian in 31 giorni, accompagnato da una barca di supporto e nuotando 132 ore totali. Era esausto, stremato, ma ancora in marcia.

Pochi giorni fa ha superato lo stretto dei Dardanelli, lasciandosi alle spalle l’Asia, ed è finalmente entrato in Europa. Da qui in poi, sarà una cavalcata di volontà e ricordi, diretta a Hull, nel Regno Unito, la sua casa, la sua meta, quel punto sulla mappa che ha sognato per più di metà della sua vita. Adesso a separarlo una manciata di mesi.

Karl Bushby ha camminato per oltre 45.000 chilometri attraverso 25 paesi, superando ogni tipo di terreno, clima e ostacolo burocratico e senza mai usare un mezzo di trasporto: se non poteva farlo a piedi tornava indietro e aspettava. Il suo viaggio è un esempio estremo di resilienza, un atto di fede nella forza individuale, il racconto di una sfida inutile per il mondo, ma essenziale per la sua anima. Forse c’è qualcosa di profondamente arcaico nel suo gesto, qualcosa che appartiene all’umanità prima ancora che alla modernità. Karl cammina per dimostrare che, in un tempo di accelerazione e comodità, c’è ancora chi sceglie la via più lunga e la percorre fino in fondo.

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