In uscita una nuova traduzione per i tipi di Adelphi del libro di memorie autobiografiche ”Alla corte di mio padre” di Isaac Bashevis Singer, classe 1903, Premio Nobel per la Letteratura nel 1978.
Uscito la prima volta nel 1956 in lingua yiddish, dieci anni dopo venne tradotto in inglese per un editore newyorkese; costituito da 49 brevi capitoli di ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza dell’autore, vissuti a Biłgoraj e a Varsavia, dove il padre era rabbino, si colloca temporalmente tra la realtà della Polonia ebraica di inizio Novecento e la Seconda guerra mondiale, fino all’emigrazione in America nel 1935, vissuta senza mai dimenticare il passato, a cominciare dalla lingua.
Singer, nato in una famiglia di rabbini ortodossi, se ne liberò seguendo le orme del fratello maggiore Israel Joshua, anche lui grande scrittore, fuggito dal seminario rabbinico e da casa per non essere arruolato, ma anche per non trovarsi costretto a seguire le orme paterne.
Il padre, infatti, era rabbino cassidico in un povero quartiere di Varsavia, dove la loro casa era anche corte rabbinica, il Bet Din; l’autore, in una prefazione per la prima traduzione italiana del 1970, la descrive così: ”connubio tra tribunale, sinagoga, casa di studio e, se vogliamo, lettino dello psicanalista dove chi aveva l’animo turbato poteva venire a sfogarsi”. Parallelamente, e magari intrecciandosi ad essa, si svolgeva la vita familiare dei Singer, in cui il ruolo della madre, ebrea possessiva e ansiosa come da tradizione, era centrale.
In questo ambiente, il giovane futuro scrittore ascoltava storie e osservava una vita fatta di miserie, sogni, delusioni, sofferenze della più varia umanità, dove Dio era sempre presente perché tirato in ballo per ogni minima questione, realtà alla quale Singer guarda anche con un filo di humor (e in questo ci ricorda Woody Allen).