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Mauthausen, persone e non solo numeri: storia del campo di concentramento nazista

Il Hans Maršálek, esponente della resistenza antinazista austriaca e finito nel lager Mauthausen di cui avrebbe creato un imponente archivio

Mauthausen, persone e non solo numeri: storia del campo di concentramento nazista
Prigionieri nel lager nazista di Mauthausen
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20 Febbraio 2023 - 16.16 Globalist.it


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di Rock Reynolds

Si possono affrontare temi drammatici nelle chiacchiere da bar? Parrebbe di sì.

In passato, l’hobby nazionale preferito degli italiani era trasformarsi collettivamente in commissari tecnici all’indomani di una disfatta della nazionale di calcio. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un deciso salto di qualità: la catastrofe del Covid ci ha fatti diventare tutti virologhi e infettivologhi; i venti di guerra dall’Ucraina hanno nutrito le nostre recondite aspirazioni al ruolo di strateghi sullo scacchiere internazionale; il recente terremoto che ha devastato Turchia e Siria ci ha spinti ad avanzare pretese da sismologi. Per non dimenticare il tifo da stadio scatenato dalla morte di un papa emerito, con la conseguente comparsa di schiere di teologi da supermercato.

Eppure, non è raro imbattersi in un’accesa discussione in cui alle nefandezze del nazismo vengono contrapposte le insensate purghe staliniane, snocciolando numeri e freddi dati scientifici a suffragio di questa o di quella parte. Della serie, il vero cattivone non era Hitler: la personificazione del male era Stalin o viceversa; Baffetto ha sterminato milioni di ebrei, ma anche Baffone non scherza.

Resta il fatto più che assodato che, malgrado la mostruosità di ogni eccidio e di ogni forma di privazione di libertà individuali per ragioni politiche, razziali, religiose, economiche o sessuali, l’Olocausto è il fenomeno di sterminio di massa scientificamente programmato più allucinante a cui la storia abbia mai assistito. Nessuno, prima di Hitler e del nazismo, aveva mai pianificato con altrettanta fredda lucidità la scomparsa di un intero popolo.

Se, però, si intende realmente fare della questione dei numeri un elemento primario, esistono testi che hanno analizzato in profondità la cruda conta di risorse e vittime.

Sono state spese migliaia di pagine per spiegare, analizzare ed esorcizzare la Shoà: lo hanno fatto i poeti e i romanzieri, come pure gli storici. La storia del campo di concentramento di Mauthausen (Mimesis, traduzione di Paola Ferrari, pagg 430, euro 28) di Hans Maršálek, esponente della resistenza antinazista austriaca e finito proprio in quel lager, di cui avrebbe creato un imponente archivio, rientra in quest’ultima categoria.

Se cercate un libro che, attraverso una narrazione dai toni lirici, amplifichi il senso di vuoto che l’infamante capitolo umano dell’Olocausto ha creato e crea tuttora, forse il saggio di Hans Maršálek non fa per voi. Come dicevo, siamo di fronte a un testo quasi accademico nella sua scientificità: come tale, l’autore parte dalla decisione stessa di creare un campo di lavoro e di internamento in una regione austriaca non particolarmente nota per ospitare nutrite comunità ebraiche e certo non all’avanguardia nella lotta al nazismo. L’Anschluss, l’annessione alla Germania avvenuta senza colpo ferire e conclusasi tra due ali di folla con la visita di Hitler a Vienna e la sua proclamazione solenne dell’annessione stessa nel marzo del 1938, lo testimonia.

Ricordo di aver visitato il campo molti anni fa e di essere rimasto sorpreso dalla beatitudine della zona circostante caratterizzata da colline boschive a pochi chilometri da Linz e dal Danubio, uno stridente contrasto con i drammi personali che erano stati vissuti all’interno degli alti muri di quella che, a tutti gli effetti, è una fortezza costruita nel 1938 allo scopo di sfruttare la mano d’opera a costo zero fornita da prigionieri di guerra polacchi, sovietici e jugoslavi, ebrei, omosessuali, rom, oppositori politici e via dicendo nell’estrazione del granito nella vicina cava. Il campo era di “grado 3”, ovvero pensato per annientare i prigionieri attraverso la fatica e le privazioni. Come ricorda Maršálek, le autorità naziste avevano ben chiaro lo scopo di ciò che facevano quando crearono il campo di Mauthausen e molti altri dalle caratteristiche simili: «I lavori forzati sono il fine essenziale dei campi di concentramento». Maršálek indica persino le aziende esterne appaltatrici di determinate operazioni e incombenze.

Fu Reinhard Heydrich, obergruppenführer (una sorta di generale di corpo d’armata) delle SS e pupillo di Hitler stesso, a sancire con un decreto del 1941 la classificazione dei campi di concentramento esistenti. Il “grado 3”, quello peggiore, riguardava proprio Mauthausen, pensato «per detenuti con gravi pendenze penali, non rieducabili, e allo stesso tempo anche penalmente pregiudicati e asociali, ovvero per detenuti per ragioni di pubblica sicurezza, che possono a mala pena essere rieducati». Non si sa esattamente per quale ragione sia stata scelta proprio la località di Mauthausen, per quanto sia probabile che la posizione isolata delle cave di pietra abbia svolto un ruolo importante. È, però, certo che Heydrich, dopo un consulto con il suo capo e comandante supremo delle SS, Himmler, abbia scelto Mauthausen per coniugare, fin dalle intenzioni iniziali, «l’impiego di manodopera costretta ai lavori forzati con uno sterminio premeditato».

Ricordo anche, durante la visita del campo di sterminio, la sorpresa nel constatare che a Mauthausen aveva perso la vita un numero decisamente inferiore di persone rispetto a lager come Auschwitz e Treblinka: 122.000, ovvero in media trenta al giorno. Con una sorta di sadismo da caserma portato ai massimi estremi, gli ufficiali non mancavano mai di ricordare ai nuovi arrivati che «Qui ci sono solamente dei vivi che lavorano o dei morti. I malati devono morire». E si deve al sarcasmo macabro dei carcerieri tedeschi la scelta del nome “Scala della Morte” con cui si designava la scalinata di 186 gradini che i detenuti ai lavori forzati erano costretti a percorrere con una pesante pietra sulla schiena, rischiando ogni volta di cadere nel baratro – chiamato a sua volta “Muro dei Paracadutisti” – oppure di essere fatti oggetto del divertito tiro a segno delle guardie.

La storia del campo di concentramento di Mauthausen di Hans Maršálek, pubblicato per la prima volta nel 1974, grazie a una certosina ricerca d’archivio ha finito per diventare una sorta di pietra miliare da cui numerose altre opere analoghe non avrebbero potuto prescindere. In calce al testo compare un interessante prontuario delle espressioni principali in uso nel lager e, a corredo del testo, appaiono le immancabili foto d’epoca in bianco e nero.

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