Wlodek Goldkorn: «Il negazionismo sulla Shoah preoccupa. La Memoria serve contro i razzismi» | Culture
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Wlodek Goldkorn: «Il negazionismo sulla Shoah preoccupa. La Memoria serve contro i razzismi»

Lo scrittore e giornalista parla a partire dalla raccolta di Primo Levi “Auschwitz, città tranquilla”: «Un monito contro le prevaricazioni». E ricorda: «Gli ebrei reagirono ai nazisti»

Wlodek Goldkorn: «Il negazionismo sulla Shoah preoccupa. La Memoria serve contro i razzismi»
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26 Gennaio 2021 - 11.53


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«L’antisemitismo è come il virus, muta, ma quello che più mi preoccupa è il negazionismo sulla Shoah o il relativizzarla». E la Memoria deve contribuire «a costruire un futuro collettivo e essere da monito a ogni razzismo, a ogni prevaricazione, a ogni oppressione o non serve a nulla. Primo Levi lo sapeva». Lo dice Wlodek Goldkorn, giornalista e scrittore nato in Polonia nel 1952, senior editor dell’Espresso. Autore di libri sull’Olocausto e sugli scampati allo sterminio quali “La scelta di Abramo. Identità ebraiche e postmodernità”, “Il bambino nella neve”, “L’asino del Messia”, oggi martedì 26 gennaio alle 18 in un incontro online della Fondazione del Circolo dei lettori di Torino interviene insieme alla scrittrice Nadia Terranova, introdotti da Fabio Levi, di “Auschwitz, città tranquilla” (Einaudi, pp. XVIII-142, € 12,00, a cura di Fabio Levi e Domenico Scarpa), raccolta di dieci racconti incastonati da una poesia in apertura e una in chiusura di Primo Levi. L’appuntamento per la Giornata della Memoria, domani 27 gennaio, si inserisce nel ciclo “Condividere la memoria. Nel cammino di Primo Levi”, un progetto in corso fino a febbraio che comprende podcast, un gruppo di lettura, una mostra e altro.
Nel libro dalla scrittura limpida e magistrale l’autore di “Se questo è un uomo” affronta la Shoah con pagine sottilmente perturbanti come nel racconto “Forza maggiore”. Il testo poetico conclusivo, uscito sulla Stampa del 27 febbraio 1985, è il “Canto dei morti invano” e chiude con i versi netti dove la voce di quei morti apostrofa i vivi: «Sedete e contrattate / Finché la lingua vi si secchi: / Se dureranno il danno e la vergogna / Vi annegheremo nella nostra putredine». 

Clicca qui per l’incontro su Facebook del Circolo dei lettori  

“Auschwitz città tranquilla” si conclude con la poesia “Canto dei morti invano” che permette di affrontare almeno due tematiche. La prima è che Primo Levi estende la tragedia ai depredati della storia, le vittime delle stragi come quella alla stazione di Bologna nel 1982, oggi possiamo pensare ai migranti nel Mediterraneo, nei Balcani. È legittima un’interpretazione del genere?
Visto che Primo Levi l’ha fatto è legittima, questa è la risposta scontata. Però non è scontata fino a un certo punto. Tutto quello che ha fatto è bello, lo dico seriamente, non è solo una questione etica ma anche estetica, è stato uno tra i più grandi scrittori del ‘900 e uno degli uomini più Giusti nella storia del dopoguerra in Italia. Dopo di che qui parlo io, perché c’è una differenza fondamentale tra i testimoni e chi ha avuto la fortuna di venire al mondo dopo la Shoah: io appartengo per fortuna a quell’altra generazione. E penso che quando noi parliamo della Memoria, noi che vogliamo fare qualche cosa con quella Memoria dobbiamo proiettarla nel futuro. O la Memoria serve a costruire un futuro collettivo e essere da monito a ogni razzismo, a ogni prevaricazione, a ogni oppressione o non serve a nulla, possiamo anche rinunciare. E Primo Levi lo sapeva e infatti quella poesia ne è la testimonianza. 

Un altro aspetto che pone questo testo poetico è l’invettiva di chi non sarà più vittima e reagirà quando una delle domande frequenti dopo l’Olocausto è stata: perché gli ebrei non hanno reagito?
È semplicemente un errore. Gli ebrei hanno reagito, ma subito dopo la guerra è prevalsa una narrazione che voleva gli ebrei passivi. Dove potevano hanno reagito. In moltissimi ghetti esistevano organizzazioni clandestine, praticamente in tutti i campi di stermino ci sono stati episodi di rivolta degli ebrei. Dopo di che per reagire e difendersi armi in mano bisogna essere in condizione di farlo. Me lo ha spiegato tante volte Marek Edelman (1909-2019, ndr), il comandante in seconda dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia nel 1943: è stata la prima rivolta armata contro i nazisti nell’Europa occupata. Di cosa parliamo? Per non parlare di altre mille forme di resistenza civile, clandestine, teatri, reti di appoggio in moltissimi ghetti nell’Europa orientale e del centro si sa, sono storie oggi molto indagate. Il problema è che si è cominciato a indagare tardi ma questo attiene al modo in cui si voleva narrare la Shoah subito dopo la guerra.

Si parla della Memoria ma l’antisemitismo non è mai finito. Basti ripensare al giovane arrestato per terrorismo a Savona che voleva pianificare l’eliminazione degli ebrei (clicca qui per la notizia). 
L’antisemitismo è come il virus, muta a seconda dell’ambiente in cui si muove e deve sopravvivere. L’episodio di Savona non ha bisogno di commenti ma, se posso dirlo, oggi la cosa che a me preoccupa più il negazionismo: nessuno oggi vuole dirsi apertamente antisemita e allora per esserlo bisogna negare o relativizzare la Shoah. E se posso aggiungere: pur con tutte le legittime e doverose critiche alle politiche dei governi dello Stato di Israele mi preoccupa l’atteggiamento che cerca di delegittimare l’esistenza di Israele, come se fosse la fonte di ogni male nel mondo. 

Purtroppo succede anche a sinistra.
Sì, certo, la mia è una critica anche a sinistra. Questo tipo di critica a Israele si unisce a una concezione complottarda della storia con gli ebrei come centro di un complotto ai danni dell’umanità. Questo preoccupa: il negazionismo, questa miscela che crea un clima culturale non buono e su questo dobbiamo lavorare.

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