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Sorrentino cita la Arendt: l’oblio può causare crimini, ricordiamoci chi siamo

Pubblichiamo un brano dal saggio “Senso della vita e abbandono”: lo studioso Vincenzo Sorrentino incrocia testi letterari, filosofici e religiosi su un tema oggi più urgente e necessario che mai

Sorrentino cita la Arendt: l’oblio può causare crimini, ricordiamoci chi siamo
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12 Dicembre 2020 - 16.58


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“Senso della vita e abbandono. Viaggio tra filosofia, letteratura e religione” del docente di filosofia Vincenzo Sorrentino è un saggio appena pubblicato, corredato da una ricca costellazione di citazioni d’autore spesso molto vari tra lori, che pone una domanda fondamentale del nostro esistere: quale senso ha la vita, come porsi, perché per condividere l’esistenza con in nostri simili è necessario rifletterci su e non dimenticare, non far precipitare il nostro pensare nell’oblio. Tra brani di Leopardi, Rilke, Pascal, Aristotele, Nietzsche, Shakespeare, Pavese, scritture sacre, diari e lettere di Etty Hillesum che morì in un campo di concentramento nazista e molti altri, il libro delinea una visione d’insieme nei secoli con un approccio alla parola scritta e al pensiero ad ampio raggio e che va ben oltre i possibili interessi di chi segue il pensiero filosofico. Sorrentino ha un approccio ad ampio raggio, attraverso i rimandi letterari scava anche nella dimensione emotiva e nel suo saggio (Castelvecchi editore, pp. 160, euro 17,50, con una nota del teologo Elmar Salmann) affronta temi che sono della modernità, forse della vita in ogni epoca e luogo, ma che in questo periodo risultano più urgenti e vivi che mai.
L’autore insegna all’università di Perugia e ha pubblicato tra l’altro volumi come “Il pensiero politico di Foucault (2008), “Il potere invisibile. Il segreto e la menzogna nella politica contemporanea” (2011) e “Aiutarli a casa nostra. Per un’Europa della compassione” (2018). Pubblichiamo un brano dalle pagine 46 e 47, senza le note, da “Senso della vita e abbandono”.

di Vincenzo Sorrentino: “L’oblio”

Per l’ateo la terra costituisce l’unico ambito relazionale capace di dare significato alla vita. La morte individuale può ancora non gettare l’esistenza nell’insignificanza se viene garantita la memoria, la quale, però, non è che una debole luce persa nel buio cosmico e destinata a spegnersi in esso. Soltanto se gli uomini diventassero capaci di vivere al di fuori della terra, nello spazio o su altri pianeti, sarebbe possibile evitare la caduta nell’insignificanza. Il cosmo, che attualmente rappresenta la dimensione dell’oblio (e dunque della cesura di ogni legame), diventerebbe uno spazio capace di accogliere la memoria degli uomini. In altri termini, il cosmo diventerebbe un mondo. Il mito della conquista dello spazio è forse legato a quello della vita eterna (dell’umanità).

Una vita priva di un significato ultimo non è, però, necessariamente una vita senza alcun significato: vi sono, infatti, dei contesti significanti “locali”, parziali (la famiglia, la città, ecc.), che naturalmente sono sempre culturalmente definiti. Nell’ottica weberiana la cultura è proprio il frutto della capacità dell’uomo di attribuire un significato a una sezione dell’infinità del divenire del mondo, che in quanto tale ne è sprovvista. Tuttavia, i significati “locali” possono restare in piedi solo grazie all’oblio della mancanza di significato ultimo. Soltanto grazie all’oblio del fatto che la trama di connessioni che sorregge la nostra esistenza è sospesa, in ultima istanza, nel nulla ed è destinata alla distruzione, è possibile che la nostra vita acquisti un significato. Ciò che sostiene la memoria delle vicende esistenziali, che sola può garantire quella temporanea permanenza capace di dare un significato “locale” alla nostra vita, è l’oblio.

In questo bisogno vitale di oblio troviamo, forse, una delle principali radici della tendenza a non pensare, a non riflettere, le cui possibili conseguenze catastrofiche sono state lucidamente denunciate dalla Arendt, la quale ha messo in risalto come il male possa essere separato da ogni profondità “diabolica”. Non la malvagità, ma la mera superficialità, l’incapacità di pensare e di giudicare autonomamente e, dunque, la passività che porta a subire clichés e ordini, può indurre un individuo a commettere crimini terrificanti: «La triste verità è che il male è compiuto il più delle volte da coloro che non hanno mai deciso di essere o agire né per il male né per il bene» *.

Il non-pensare è pericoloso perché rende l’individuo incapace di giudicare. Il pensiero, in quanto attività riflessiva, mette costantemente in discussione i dati che provengono dall’esperienza. Ciò significa che quando i clichés e gli automatismi tendono a dominare l’esistenza degli esseri umani, ostacolandone la capacità di giudizio, il pensiero può distruggere tali ostacoli e liberare lo spazio necessario al giudizio. Diventa, allora, pienamente comprensibile la pericolosità del non-pensare: esso predispone l’individuo all’accettazione di qualunque regola di condotta, comporti l’“ordine pubblico” o i “massacri amministrativi”:

«Anche il non-pensare, tuttavia, la condizione in apparenza così raccomandabile per gli affari politici e morali, presenta i suoi rischi. Ponendo la gente al riparo dai pericoli della riflessione, esso insegna ad attenersi comunque a tutto ciò che prescrivono le regole di condotta vigenti in una data epoca e in una data società. Ciò a cui allora gli uomini finiscono per abituarsi non è tanto il contenuto delle regole, un esame attento delle quali li condurrebbe sempre alla perplessità, quanto il possesso di regole sotto cui sussumere i casi particolari». **

Il pensare, però, ha un carattere ambivalente, se considerato da un punto di vista esistenziale. La sera a letto, prima di addormentarci, quando tutto è silenzio intorno a noi, può capitare che, chiudendo gli occhi, ci sentiamo improvvisamente precipitare nel buio, l’abisso sul quale è sospesa la nostra esistenza. Soffocati dall’angoscia, cerchiamo allora un pensiero a cui aggrapparci. Un pensiero che ci salvi. Può bastare il pensiero di un momento felice o di qualcosa in cui speriamo. Comprendiamo allora l’importanza del pensare. Il senso di caduta è una vertigine emotiva. Un pensiero può ancorarci, dandoci respiro.

* e ** : Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, 1987, p. 274 e p 271

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