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Gioia: “Così sono fuggita dall’Africa, ho subito violenze, ora rinasco”

La testimonianza di una ragazza nigeriana raccolta da Giuseppe Sciascia. Che scrive: nel nostro Paese tra le 50mila e le 70mila donne "importate" devono prostituirsi e il 40% è minorenne

Gioia: “Così sono fuggita dall’Africa, ho subito violenze, ora rinasco”
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17 Ottobre 2019 - 11.09


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Una ragazza di Benin City racconta la sua odissea, gli abusi subiti, la fuga, l’inferno libico, il barcone, l’arrivo in Italia e qui, infine, la rinascita. Lo racconta Giuseppe Sciascia che sta scrivendo un libro sulle donne sfruttate dalla mafia nigeriana. L’autore ci ricorda che nel nostro Paese tra le 50mila e le 70mila giovani sono costrette a prostituirsi. E il 40% è minorenne: ha tra i 14 e i 18 anni. Un “mercato” ignobile. Molti italiani evidentemente lo gradiscono, altrimenti non sarebbe così fiorente. Nonostante quelle ragazze avranno l’età delle loro figlie o nipoti, se ne hanno, e magari quei signori si scandalizzando dei pedofili. 

Gioia: “Il barcone può andare a picco”
Spero di morire in questo istante, in mare mentre cerco di svuotare lo scafo da una miscela di acqua e benzina che arriva già alle caviglie e brucia nella gola e negli occhi. Intorno a me, chi riesce a tenersi in piedi, fa lo stesso nel tentativo di scongiurare che il barcone vada a picco e ci porti tutti con sé. Sono due giorni che abbiamo lasciato la Libia e non si vede terraferma, sappiamo che raggiungeremo l’Italia ma intanto ho visto solo uomini accasciarsi privi di sensi e altri precipitare tra le onde, una mamma provare a gettare via il bambino ( almeno così avrà pace ). Io in quel momento ho capito che dovevo farcela, che bisognava arrivare all’altro capo del Mediterraneo e che l’unica via per sottrarre mio figlio Modest agli aguzzini era mettermi in salvo. Ho un debito con loro e so di doverlo pagare. Sono nata in un villaggio della Nigeria ventiquattro anni fa, mio padre è morto che ero piccola e mia mamma rimasta sola si è malata di cuore mi ha ceduta ad un’altra donna che avevo otto anni. La considerano una strega, pratica il voodo e fa di me una schiava. Io così passo con lei i successivi sei anni della mia vita: finché c’è luce impegno il mio tempo a sbrigare le faccende o nella foresta a cercare arbusti, foglie e radici, tutto il necessario per i suoi rituali; la notte mi lascia dormire solo 3 ore.
Un giorno tornando dal fiume, dove prendo l’acqua fresca, sulla strada mi trovo davanti un serpente e paralizzata dalla paura faccio tardi e la strega prima mi picchia poi mi insulta “Sei una poveraccia, non vali niente! Prepara le tue cose e vai via!” mi dice. Ho solo due vestiti, li metto in una busta e il giorno seguente scopro di essere stata nuovamente venduta, stavolta a una donna che mi vuole come balia dice che lasceremo la Nigeria per raggiungere il Togo, ma in un posto di blocco nel centro della foresta la polizia mi trova senza documenti. Per non essere fermata, lei finge di non conoscermi e se ne va lasciandomi lì da sola. Io senza passaporto finisco rinchiusa in una gabbia di legno per tre mesi, altri tre li passerò in una cella dentro alla stazione di polizia. Mangio solo pane acqua e la notte resto sola perché gli agenti vanno via.

“Non sto più in piedi”
Perdo peso, quasi non sto più in piedi, evidentemente faccio pena a uno dei poliziotti che mi libera e mi porta con sè a casa. È cortese, non chiede niente in cambio, io mi occupo della casa e piano piano torno in forze; mi promette che mi aiuterà a tornare da mia madre, a imparare il francese, è disposto ad accompagnarmi in Nigeria. Solo dopo essere passati per la Costa d’Avorio, mi rendo conto che è un commerciante e ha i suoi affari, lo seguo. Attraversiamo il Ghana, arriviamo alla frontiera con la Costa d’Avorio e io sono ancora senza documenti né soldi, lui non vuole crederci e inizia a cercare nelle mie tasche, ma non ho nulla. Allora lui decide di lasciarmi al confine ed io piango, piango perché so di non poter tornare indietro, in Togo è in corso una guerra civile. Un uomo mi vede e si presta a pagare per me, dice che lui e sua moglie possono ospitarmi a casa loro in Mali, entrambi mi trattano bene ma so che durerà poco. L’uomo, che lavora come commerciante di abbigliamento, mantiene la parola e alla prima occasione dopo mesi mi porta a Lagos. Rieccomi finalmente in Nigeria, ho lasciato da così tanto tempo il villaggio che non mi ricordo più com’è fatto.
Il commerciante malese mi lascia alla stazione dei bus e raccomanda a un autista di portarmi a Benin City, lui non va in quella direzione e mi accompagna da un collega che sentito il cognome di mia madre dice di poter risalire al villaggio da cui provengo. Lo seguo a casa sua, ma mi costringe a dormire nel suo letto e abusa di me, è così che perdo la verginità e dopo qualche mese mi riporta al villaggio. Sono sfinita, non sto bene, mi sento debole, vomito spesso ma ho riabbracciato mia madre e mi ha chiesto perdono. Mi ha detto che non avrebbe mai volevo abbandonarmi, ma non aveva alternative. Le racconto delle violenze subite e poco dopo scopro di essere incinta. Torno dall’autista dell’autobus per dirglielo e lui mi mette alla porta dicendomi che non sa che farsene di un figlio, mi dice che devo abortire in casa perché facciamo la fame. Lui arrostisce pannocchie per conto di altri, guadagna una miseria. Io mi occupo di mia madre e partorisco nella cucina di una donna del villaggio. Non mangio, bevo poco e non ho latte; i mesi passano e Moser (chiamato così) non cresce. Per procacciare un po’ di cibo vado a lavorare in un negozio che vende alimenti ai ristoranti, ma sono costretta a lasciarlo presto perché il proprietario mi mette le mani addosso.

“In Italia troverai un lavoro”
Al villaggio da tempo si aggira gente che dice di far parte di un’organizzazione internazionale, avvicinano le persone in difficoltà e propongono loro di andare in Europa per farsi una nuova vita. Con lo strazio nel cuore decido di partire, qui non c’è futuro, “in Italia troverai un lavoro” mi dicono, ci pagheranno il viaggio. Salgo sul pullman con altre decine di persone e mentre attraversiamo il deserto ci trasformiamo in un unico enorme torpedone a cui si uniscono altri mezzi, altri uomini. La meta è la Libia, da lì ci si imbarcherà per l’Italia, assetati e affamati raggiungiamo la prima frontiera. Uomini armati di fucili ci chiedono di scendere, vogliono i documenti altrimenti denaro, io non ho né l’uno nell’altro così prendono il mio corpo a turno, puntandomi una pistola alla tempia e tutto si ripete in cinque delle sei Dogane che ho attraversato. Mi sembra di impazzire sono fuori di me, sulle gambe, sul petto e sulle braccia ho ancora il segno dei loro coltelli.

Dopo un viaggio durato mesi, una volta arrivata al campo in Libia uomini e donne in costume tradizionale mi tirano delle pietre, mi considerano una sgualdrina perché sono mezza nuda, non immaginano che quelli che ho addosso siano gli abiti che mi restano dopo tutte le violenze subite. In Italia sono sbarcata a Lampedusa, poi sono arrivata a Roma ed è qui, che grazie alla Fede, ho iniziato a frequentare la chiesa. Ho trovato piccoli lavori domestici nelle case di alcune parrocchiane, una di queste famiglie mi hai iscritto all’agenzia Icon e da allora ho cominciato a lavorare nel campo della moda. La prima volta che ho messo piede su una passerella non potevo crederci, chi se lo immaginava che potesse ancora capitarmi qualcosa di bello! Mentre sorrido penso al debito da pagare, alle minacce dell’organizzazione ogni volta che chiamo a casa per parlare con Moses e penso a quanto vorrei stringerlo…”

Giuseppe Sciascia: troppe donne immolano la loro giovinezza sulle nostre strade
Il problema della prostituzione coatta di tante, troppe donne, che ogni giorno immolano la loro giovinezza sulle nostre strade. Questo problema è sfida e provocazione per la società. Dalle tante inchieste fatte risulta che siano 500.000 le donne che ogni anno sono «importate» o che sono fatte transitare in Europa da organizzazioni criminali e immesse sul mercato come merce. In Italia, ce ne sono dalle 50 alle 70.000 provenienti da paesi dell’Est europeo o da paesi in via di sviluppo, costrette a prostituirsi, e sono ben visibili sulle nostre strade. Di queste il 40% sono minorenni, dai 14 ai 18 anni.

Nonostante l’invasione di tante giovani dell’Albania e dell’Est europeo il numero maggiore è ancora quello delle africane: oltre il 50%, ma essendo clandestine è difficile dare dati accertati. La maggior parte di queste donne, ridotte in stato di schiavitù per l’uso e consumo di milioni di clienti italiani. Ma queste popolazioni oggi non sono più geograficamente lontane, oltre oceano, sono bensì in mezzo a noi e per di più sfruttate dai nostri sistemi di vita e di mercato.
Come giustificare allora il nostro desiderio ed il nostro sforzo di aprirci alla missione, con nuove presenze in terre lontane, se poi non scopriamo la presenza di migliaia di donne straniere sfruttate nel nostro paese e non ci preoccupiamo di spezzare le loro catene? Ingannata, schiavizzata e gettata sui marciapiedi, la donna «prostituita» è l’icona vivente dell’ingiusta discriminazione imposta dalla nostra società del consumo. E questa donna nel terzo millennio chiede che i suoi diritti le siano accordati, la sua dignità restituita e la sua femminilità rispettata. Sul mercato del sesso, dove attualmente vi è molta competitività, le africane sono ancora una volta le più discriminate, perché considerate di seconda categoria: sono «nere», non sanno l’italiano, sono meno giovani e snelle, quindi chiedono una cifra più bassa. Per una normale prestazione consumata in macchina si accontentano di 10 euro, le ragazze dell’Est non meno di 15 euro. Per saldare il loro debito, di 40-50-60 mila euro contratto con i nuovi negrieri, che le hanno reclutate e portate in Italia, devono sottoporsi a non meno di 4.000 prestazioni sessuali. Oltre al debito iniziale devono pagare le spese mensili: 100 euro per il vitto, 200 euro per l’alloggio, 250 euro per la postazione di lavoro, oltre al vestiario, trasporto e necessità personali. Il debito dovrebbe estinguersi nel giro di 18-24 mesi lavorando tutti i giorni, o tutte le notti, sette giorni la settimana. Questo è il coraggio, raccontato da Gioia e di altre ragazze che ce l’hanno fatta.

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