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L'eccesso delle poesie di Klaus Kinski incendia il teatro

I manoscritti dell'attore, messi all'asta nel 1999, diventano il testo di una pièce del grande Paolo Spaziani. Parole come fuoco, come furia e febbre eterna recitate da una voce che si fa spartito

L'eccesso delle poesie di Klaus Kinski incendia  il teatro
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6 Marzo 2019 - 13.35


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di Marco Rovelli (scrittore e musicista)

 

Forse nessuno ha mai messo in scena l’eccesso come fece Pasolini in Porcile nel volto sovrano di Pierre Clementi, disertore da ogni potere, che mangia farfalle dopo aver ucciso il padre, e uccide serpi su rosse distese di vulcano; l’eccesso sfolgora nel suo volto sovrano, e nel suo suono barbaro che risuona nel deserto.

E’ questa visione che mi è riemersa dalla memoria nell’assistere alla messa in scena fatta da Paolo Spaziani (con la regia di Letizia Corsini compagna di vita e nel Ginnungagap teatro) delle poesie ritrovate di Klaus Kinski, in una piccola sala teatrale, come una scatola nera, in un centro polifunzionale a Sarzana, davanti al capolinea dell’autobus e ai binari della stazione, una domenica sera con nessuno in giro, in un transito metafisico.
Mettere in scena l’eccesso delle poesie di Kinski, riemerse dall’abisso dei tempi, non era impresa facile. Poesie che sono letteralmente riemerse, miracolosamente, da dei “manoscritti e cimeli di Kinski”, conservati da una sua amante e messi all’asta a Monaco di Baviera nel 1999. In quei fogli, risalenti al periodo 1948-1956, c’erano anche una serie di poesie, che sarebbero state pubblicate da Suhrkamp nel 2006. In Italia sono arrivate nel 2018, grazie a Antonio Curcetti che le ha tradotte (meritoriamente, si direbbe, se non fosse che l’eccesso non conosce merito), in una “edizione fuori commercio” stampata da Nessuno editore: “Febbre. Diario di un lebbroso”. E anche questo fuori commercio è un nobile, e materico, segno dell’eccesso.

“Come un angelo assetato a morte nel deserto/ io ho strappato a morsi le vene varicose/ del mondo ubriaco di meraviglia e accolsi in me/ il Dio indiavolato che mi strappò il cervello!”. E’ così che parla l’occhio solare di Kinski, rivolto verso il cielo fatto a brandelli, un cielo lordo, mentre l’azzurro si è trasferito sulla terra infuocata: “Io sono l’azzurra febbrile bestia della terra!”. Una terra infuocato marchiata dall’eros e dalla morte, dove i due si scambiano continuamente di posto, come nella costellazione di un Bataille. Il mondo gridato da Kinski è un mondo di flussi, di linee di intensità, di vettori d’energia, dove l’alto e il basso si scambiano vorticosamente di posto: “Io non sono un uomo! Sono un bacio degli elementi!”. E’ un luogo di un infinito mezzo senza inizio né fine, dove si vive all’altezza della morte, dove si vive già morti, presi in una furia, in una febbre e in un contagio appunto, che non permette alcuna requie, neppure la requie eterna: “Io sono morto, non ancora! La morte siede scorreggiando sul vaso da notte” – ché in questa interminata zona grigia, senza vita né morte, della morte stessa ci se ne fa beffe. In queste poesie di ventenne, il destino che Kinski si assumeva era già segnato: in questa infinita vitamorte, non poteva che essere Nosferatu il compimento. Così come la titanica follia di Fitzcarraldo.

Kinski come un altro Rimbaud che uccide stesso, suggerisce Paolo Spaziani nella breve chiosa finale al libro. E da questa soglia parte, Spaziani (attore di cui Lou Castel ha detto: “è più che un attore, è un artista”) per la sua rap/presentazione, dal titolo “Io non voglio nessun sepolcro”. Spaziani mette in scena le poesie di Kinski come un lungo monologo, in cui lui si fa solo tramite, cancellando ogni interpretazione. Le spazializza, ne fa musica come se la scatola nera in cui è inscritto fosse uno strumento da far risuonare con il suo corpo-voce. Movimenti che scrivono un diagramma sulla scena, piccoli gesti delle mani, come fosse il direttore d’orchestra del proprio stesso corpo-senza-organi.
E’ la voce, che tiene la scena. Una voce che emerge da un corpo anarchico, e che viene soffiata da un volto raggelato in un altrove, un volto che è come un paesaggio metafisico che ti parla da uno spaziotempo parallelo, che ti sta accanto come un angelo incustodito e incustodiente. La voce, dicevo, è la voce che risuona indifferente, come a togliere l’intenzione, lasciando solo la scrittura dell’eccesso in quanto tale. L’eccesso non ha bisogno di intenzioni: esso è. Perciò è la stessa voce, una voce-spartito, che si ascolta come una sinfonia, è la voce che descrive, con la sua grana anomica, l’eccesso. Non lo rappresenta, ma lo presenta. Accade allora che tu che ascolti non presti attenzione, talvolta, alle parole, perché è la voce stessa che risuona come il canto di un corpo senza organi: e da questo flusso emergono poi, più limpide e definite, isole di parole, immagini chiare e deraglianti, frantumi di vita. Emergono da quel corpo-voce con una fragorosa verità, se possiamo usare questa parola così illusoria. Emergono, prendono corpo, si fanno afferrare. Poi escono di scena, come esce Paolo Spaziani, alla fine dello spettacolo, da quella scatola nera dove è messa in scena l’illusione dell’eccesso: lui è fuori, in strada, all’aperto, dove il reale è nudo, e gli spettatori restano con il vuoto che crepita davanti agli occhi.
“Io non posso più vedere se ci siano ancora dei fiori / il cielo è stato ridotto a brandelli / e uno potrebbe restarci appeso”.

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