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Trafficante d’uomini, Francesca Mannocchi indaga il “cattivo”

La reporter di guerra e sui migranti pubblica il romanzo “Io Khaled vendo uomini e sono innocente”. Per capire e discutere

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4 Febbraio 2019 - 22.15


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Chi, ai nostri occhi intabarrati, è più riprovevole degli scafisti che traghettano migranti dall’Africa nera o dalla Siria o dal Pakistan su bagnarole troppo spesso non in grado di affrontare il Mediterraneo? Chi oserebbe approfondire chi sta dietro quel ruolo senza scrupoli? Per il suo primo passo da cronista a narratrice ha osato Francesca Mannocchi, reporter e autrice di documentari con alle spalle molti reportage sui migranti dalla Grecia alla Libia, dall’Afghanistan all’Iraq alla Siria dove ha raccolto un bagaglio di storie drammatico che evidentemente richiedeva un’altra forma. La giornalista ha pubblicato il suo primo romanzo, Io Khaled vendo uomini e sono innocente (Einaudi Stile Libero Extra, pp. 208, € 17,00) in cui ha assunto come voce narrante la più compromessa, ambigua, feroce e anch’essa forse vittima: quella di un libico “trafficante di esseri umani, un carnefice, vittima del riscatto di un Paese nel caos”, riferisce la casa editrice.

Per giudicare il romanzo, per contenuto e qualità della scrittura, occorre leggerlo, non esiste altro metodo. Di sicuro la narratrice vuole andare oltre il già detto, il già sentito. Questo traghettatore senza scrupoli si chiama Khaled. A lui Mannocchi lascia dire: «Io sono la sola cosa legale di questo Paese. Prendo ciò che è mio, pago a tutti la loro parte. E anche il mare, anche il mare si tiene una parte della mia mercanzia. Mi chiamo Khaled, il mio nome significa immortale». In una intervista ha dichiarato che «se vogliamo capire davvero dobbiamo raccontare anche i cattivi, capirne le ragioni, solo così possiamo trovare il modo di cambiare le cose». Certo non si cambiano con la politica dell’attuale governo che non vuole cambiare nulla ma semplicemente lasciar morire in mare guardando da un’altra parte.

Anche nelle storie di stupri e ferocia dai campi di detenzione libici la giornalista ha spiegato di aver attinto a vicende ascoltate dalle vittime, vicende vere di torture, violenze, ricatti, abusi. Francesca Mannocchi le ha trasposte in forma narrativa. Focalizzando la storia su un libico poco più che trentenne che voleva fare l’ingegnere, che ha fatto la rivoluzione contro Gheddafi, al traghettatore l’autrice consegna passi come il seguente incluso nell’estratto online della Einaudi: “Non posso fidarmi di nessuno, ho fiducia solo delle mie tasche. Mio padre diceva che le tasche non mentono mai. E il nonno, dietro: «Anche il diavolo dice la verità qual-che volta». Mio padre non era il diavolo, certo. Ma nemmeno la brava persona che credevo. Era pieno di ombre, come ognuno di noi del resto”.

Khaled è spietato e rivendica la sua spietatezza: “Ragazzini incapaci, io gli dò una possibilità e loro la sprecano, gli dài una mano e loro si prendono il braccio, come diceva mio nonno, mostri all’uomo nero il candore dei tuoi denti e lui ti fa vedere il nero del suo culo. Brutto stupido irriconoscente di un Ibrahim. Gli faccio fare la fine di questi disgraziati davanti alla banca, che stanno in coda dalle sei di mattina, donne e uomini, giovani e anziani, lo voglio proprio vedere se mi fa perdere tempo un’altra volta. Mezza giornata persa significa ritardare il carico di altri dieci negri. Quello che perdo glielo faccio ripagare”.
Una ferocia simile non esclude la compassione? In queste pagine forse no. “Che pena, questa gente, poveri disgraziati – dice ancora Khaled nell’estratto online – quella potrebbe essere mia madre, seduta sugli scalini di una banca a pregare un ragazzino armato con la mimetica e il berretto blu che potrebbe esserle nipote, pregarlo in lacrime di farle prelevare un po’ dei suoi risparmi, guarda come si deve umiliare, magari non sa come comprare il pane”. Un giudizio sul libro, ripetiamo, può essere pronunciato soltanto a lettura completa, non da un estratto. Il bisogno di registrare e ricreare ogni  punto di vista sta comunque nella letteratura e, probabilmente, nel bisogno di capire.

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