Nick Cave i 60 anni dell'alchimista che trasformò il punk in letteratura | Culture
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Nick Cave i 60 anni dell'alchimista che trasformò il punk in letteratura

L'ossimoro di ogni storia, l'artista che nel terzo millennio tra versi e suoni ha cambiato il senso della scrittura in musica. Fino a deragliare contro un muro: la morte del figlio

Nick Cave i 60 anni dell'alchimista che trasformò il punk in letteratura
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22 Settembre 2017 - 21.16


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di Daniela Amenta

E’ lui l’ossimoro. Tutto e il suo contario, soprattutto il bene e il male, soprattutto la redenzione e la perdizione, l’angelo e il demonio in una sola anima palpitante, guerriera, nero catrame. Qualche patto infernale Nick Cave, da Warracknabeal, Australia, deve averlo controfirmato con una piuma di pavone intinta nel sangue. Ma l’ha pagato. Oggi è la sua festa di compleanno, 60 anni, e forse ne lascerebbe altrettanti sul tavolo dei bilanci. Perché la vita, quella vera di Nick Cave, si è fermata contro un muro il 14 luglio del 2015, il giorno della morte drammatica di Arthur, il figlio adolescente avuto dal grande amore, quello che arriva con l’età: la modella-stilista Susie Bick. Arthur che è volato dalla scogliera di Brighton forse sotto effetto di un acido. E che padre è stato questo poeta, l’impossibile, il punk? Che cosa, chi? 

Lui ha provato a celebrarla l’immane lacerazione, a far pace con la perdita. Skeleton Tree è il suo ultimo disco. E non è un disco sul dolore. E’ semplicemente un’opera pervasa dal dolore. Cave aveva iniziato a scrivere i pezzi prima della tragedia, ma come si intuisce dal documentario One More Time With Feeling,  diretto da Andrew Dominik , la produzione, gli indirizzi, i toni sono stati inevitabilmenti scossi da quanto è accaduto. La direzione della musica, dei testi, dell’intera atmosfera hanno cambiato senso e passo. 
Nick Cave, dunque. Oltre trent’anni di suoni nel segno dell’Apocalisse e degli eccessi, deragliamenti sentimentali e sonori. Una scrittura febbrile e torbida, tesa verso la perenne ricerca del divino nelle miserie terrene o di un Cristo trascendente a dargli pace, a frenare le frane, attutire il tonfo disperatamente umano di Nick, The King Ink che osò sfidare il cielo. Nessuno dei 15 dischi che precede Skeleton Tree è facile, confortante. In tutti, con diversi gradi, è presente il concetto di morte, sofferenza, finitezza. Ma se nel passato Cave utilizzava anche i miti letterari per comporre i suoi affreschi tragici – da Huckleberry Finn di Twain alle epiche Murder Ballads, da Spoon River fino a William Blake e alle pagine più crude e cruente della Bibbia – in Skeleton tree,  l’albero secco senza foglie , non esiste mediazione, escamotage culturale. Il re è nudo, e piange. Piange il figliol prodigo, The Good Son, probabilmente l’erede prediletto (Cave, per la cronaca, ha altri tre figli, tra cui Earl, il gemello di Arthur).

Siamo a Brighton, sud della Gran Bretagna, luogo di ferie e tomba della Redenzione. Se il disco suggerisce, nel film di Dominik il lutto esplode attraverso le parole spezzate, l’imbarazzo, la fragilità di una rockstar che si guarda allo specchio e dice: “Quando mi sono venute queste occhiaie? Quando sono invecchiato così tanto? Sono diventato oggetto di pietà, la gente mi ferma per esprimermi solidarietà. E io non so se piangere, abbracciare, essere maleducato. Non so come sintetizzare quello che ci è accaduto oltre una perfetta banalità. Non so come comportarmi e questo non è da me. Non so raccontare, mi sembra di non essere rispettoso con Arthur. Potrei portare il mio punto di vista, quello di mia moglie, ma non il suo. Capite?”.

Dal vivo lo abbiamo visto tante volte. E ogni volta un sussulto, una scossa eterna. E certo, in questo compleanno, almeno ai margini della torta c’è l’epopea dei Birthday Party, il grande innamoramento con/per i Bad Seeds, ovvero Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten, il bassista Barry Adamson e il chitarrista Hugo Race e Mick Harvey. I semi cattivi piantati in una storia in cui lui, Nick, è l’unico vero sopravvissuto.
E poi ovvio ci sono le donne. Quell’immaginario popolato da artiste, complici, tutte pazze per lui, lui per loro: Anita Lane, Pj Harvey. Dicono che nel gineceo ci fosse pure lei, la più sexy delle piccine: Kylie Minogue. Accanto a tutte le signorine avute, sognate, tra una fattanza e un Barbablu sfilano quelle narrate con l’epica infinita di Cave. Eccole, eccole qui. Bionde, rosse, magre e tese. Si chiamano Deanna, Alice, Sugar sugar sugar, Lucy, Christina, la moglie di John Finn, Cassiel, Betty Coltraine.
Into my arms, oh Lord.
Ci sono giorni di inchiostro. E quando arrivano questi giorni, con mantelli scuri e refoli di vento gelido e brividi, bisogna avere il coraggio di guardarli in faccia. Avere il coraggio di aprire la porta, di far accomodare ricordi e manie, e di riascoltarsi un pezzo, un bel pezzo di vita. La propria. La nostra. La tua. Quando arrivano i giorni di inchiostro, la musica è del King Ink. Fino a scoprire che il re piange sopraffatto, disperato. Dice, ancora, in More Time With Feeling: “Quando ci siamo distratti? Come è potuto accadere? Un grande trauma non aiuta il processo creativo, anzi lo affossa, toglie energie, diventa una specie di recinto dentro la testa. Ci ritorni di continuo. La vita non è una storia”. E in questo ha ragione. La vita non è una storia. In fondo l’aveva previsto. A scorrere indietro, in un punto preciso di una carriera complessa arriva, imprevisto Higgs Boson Blue, un pezzo imperativo, sintesi del delirio e delle parabole chiuse. Canta. Lui canta: “E in un certo senso spero di farla finita con questo esame della verità/ Occhio per occhio/ Dente per dente/E non ho più niente da perdere/ E non ho più paura di morire”.
Nick Cave è stato, è  la letteratura di un tempo, di una generazione. Lui è venuto, lui se n’è andato. Non voleva il nostro amore, non voleva i nostri soldi. Voleva la nostra anima. Se l’è presa. Buon compleanno, re dell’inchiostro.

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