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Tenco 25: l'arte, senza impegno politico, è solo arredamento

Il commosso saluto ad Antonio Silva conduttore di 50 edizioni. Dietro le quinte con Michele Staino e il testimone di Sergio. Andrea Scanzi, presentatore accanto a Silva, Lorenzo Luporini e Silvia Boschero, non dimentica di ricordare i tristi giorni di Gaza.

Tenco 25: l'arte, senza impegno politico, è solo arredamento
Fonte: Repubblica.it
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31 Ottobre 2025 - 13.11


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di Lucia Mora 

“Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare”. Sono parole tratte da “Itaca”, poesia di Konstantinos Kavafis, le stesse scelte da Antonio Silva per dire addio al Premio Tenco dopo averlo presentato in tutte le sue cinquanta (!) edizioni. Le ha recitate sul palco dell’Ariston poco prima di chiudere la rassegna sanremese dedicata alla canzone d’autore e, per raccontare che cosa è stato il Tenco 2025, è da qui che voglio partire, dal fondo, anche se i bravi giornalisti, lo so, dovrebbero sempre partire dall’inizio.

Parto dal fondo perché è nelle lacrime di un commosso Antonio Silva che trovi tutta la bellezza del Tenco, che ormai da tempo non è più solo un Premio: è un pretesto che gli addetti ai lavori (giornalisti, operatori culturali, produttori, speaker radiofonici, organizzatori di eventi et similia) colgono per ritrovarsi. Per tre serate Sanremo diventa l’Itaca dove approdare per sentirsi meno soli in una realtà che sistematicamente e colpevolmente ignora la musica d’autore. Uno spazio dove chi ama il cantautorato può sentirsi compreso e, attenzione, può addirittura divertirsi. Chi crede che i cantautori siano polverose cere da museo forse non è mai stato nell’infermeria dell’Ariston, quel luogo mitologico in cui il vino scorre vigoroso come il Tevere a Roma e dove le leggende da raccontare, su Francesco Guccini e tanti altri, sarebbero infinite.

Non capita tutti i giorni di poter condividere un brindisi con grandi artisti come Simone Cristicchi, Omar Pedrini, Lucio Corsi o Daniele Silvestri (tutti ospiti di questa edizione) ed è questa eccezionalità, questa temporanea deviazione dalla via principale a spingere tutti a tornare con più entusiasmo dell’anno precedente. Anche chi partecipa per la prima volta ha subito l’impressione di trovarsi in mezzo a una grande famiglia, un po’ per la convivialità che anima il dietro le quinte e un po’ perché i volti che si aggirano tra i corridoi del teatro più famoso d’Italia sono, alla fine, sempre gli stessi. E anche chi dopo tanti anni non può più esserci, come Sergio Staino, trova comunque il modo di prendervi parte lasciando il testimone alle nuove generazioni: Michele Staino è tra i baldi suonatori del “Dopotenco”, il momento più atteso di ogni serata – soprattutto per chi intende incrementare il tasso alcolemico inaugurato in infermeria.

Il Dopotenco rende abbastanza l’idea della straordinarietà di questa rassegna. Quando si arriva (se ci si arriva: prima bisogna sperare di essere sulla lista degli invitati, o quantomeno di impietosire chi ha in mano la lista degli invitati) al grande salone destinato alla cena post festival, gli occhi cadono sia sulla fantozziana fila che (prima o poi, di solito più poi che prima) ti porta al buffet, sia sul piccolo palco allestito accanto ai tavoli. Uno spazio riservato a chiunque voglia cimentarsi in una jam session improvvisata per intrattenere i presenti. Si narra che l’anno scorso la sala fosse impazzita – sventolando i tovaglioli a elicottero – dopo una “Prospettiva Nevski” cantata dal duetto Cristicchi-Scanzi, per esempio. Scene irripetibili.

Andrea Scanzi è tornato quest’anno in veste di presentatore accanto a Silva, come Lorenzo Luporini la prima sera e Silvia Boschero la seconda. Malgrado la fama di narciso incompiuto, Scanzi ha aiutato Silva a concludere il suo lungo viaggio con grande garbo e sensibilità, senza dimenticare un aspetto fondamentale: la politica. Su un palco che tradizionalmente rifiuta ogni variazione sul tema (a maggior ragione sotto la conduzione di “conservatori” vecchio stampo come Carlo Conti), sentir parlare di antifascismo o di genocidio a Gaza fa quasi strano. È il bello del Tenco: riesce dove il carrozzone di febbraio non riuscirà mai. E anche se, come in ogni famiglia che si rispetti, i difetti e gli scazzi non mancano, teniamoci stretta questa realtà così unica e preziosa, in un Paese sempre più disabituato alla cultura e insofferente verso gli artisti schierati. Al Tenco il motto è chiaro: l’arte, senza impegno politico, è solo arredamento.

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