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Farinella: «Raffaello con le “grottesche” affascinò anche Dalì e Paul Klee»

Il pittore moriva tra il 6 e 7 aprile 1520. Lo studioso svela come lanciò una moda ispirata alla Domus Aurea di Nerone dove si calò come uno speleologo. Il monumento riapre con una mostra

Farinella: «Raffaello con le “grottesche” affascinò anche Dalì e Paul Klee»
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6 Aprile 2020 - 09.43


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La mostra “Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche”, organizzata per il 6 aprile 2020 nel cinquecentenario della morte del pittore, l’anno scorso venne rinviata per la pandemia. Il sipario si alza il 23 giugno, con la riapertura della Domus Aurea nel Colle Oppio a Roma, un nuovo ingresso al monumento, con apparati interattivi e multimediali nella Sala Ottagona e negli ambienti circostanti. L’iniziativa del Parco archeologico del Colosseo è organizzata e promossa da Electa, è curata da Vincenzo Farinella e dalla direttrice del Parco Alfonsina Russo con Stefano Borghini e Alessandro D’Alessio, con l’allestimento e “interaction design” progettati da Dotdotdot. Vi riproponiamo adesso l’intervista a Farinella dell’aprile 2020 in vista della rassegna che, come detto, non si tenne.
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Nel secondo decennio del ‘500 Raffaello si calò come uno speleologo con una corda e torcia nei vasti ambienti sotterranei di un edificio romano: non era il primo, fu il primo tuttavia a capire che stava esplorando la mitica Domus Aurea, il palazzo imperiale di Nerone. Sbigottì: in quella Roma allora misteriosa il pittore vide, figure bizzarre, umane e animali e vegetali mescolate, decorazioni complicate. Le chiamarono “grottesche” perché la Domus era vista come un’enorme grotta. “Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche” è la mostra multimediale, posticipata come ogni appuntamento a causa del Coronavirus, che era in calendario a partire da oggi 6 aprile:  in tempi da definire si terrà comunque nella Domus Aurea stessa con ingresso in Viale Serapide nel Parco del Colle Oppio, per i 500 anni dalla morte dell’artista nato a Urbino e morto a Roma appena 37enne nella notte tra il 6 e 7 aprile 1520.

Parla di questo aspetto collaterale dell’arte del maestro rinascimentale Vincenzo Farinella, curatore insieme al Parco archeologico del Colosseo della mostra organizzata dalla casa editrice Electa, docente di storia dell’arte moderna all’Università di Pisa, autore tra l’altro di un saggio su Raffaello e le grottesche (in arrivo a luglio, Electa, € 28). L’allestimento interattivo e multimediale, nella sala Ottagona e ambienti limitrofi, è invece curato dallo studio milanese di Interaction e Exhibit Design Dotdotdot.

Professore, come nasce l’idea di organizzare un appuntamento su Raffaello e le grottesche?
L’idea era trovare un elemento originale nel cinquecentenario. È un argomento importante ma non così divulgato. Grazie a suoi studi archeologici e grazie al fatto che aveva come collaboratore Giovanni da Udine, particolarmente portato negli studi antiquari, intorno al 1515 Raffaello visitò la Domus. Si calò con le torce e corde come uno speleologo nelle grotte, vide quelle decorazioni e ne rimase affascinato come gli artisti che le avevano viste prima di lui.
Chi lo aveva preceduto?
Il primo fu Pinturicchio. In una cappella nella chiesa di Santa Maria del Popolo ci sono suoi affreschi decorativi del 1478-9 derivati da scene viste nella Domus. Quindi a quella data aveva sicuramente visto le grottesche.
Gli altri?
Subito dopo altri artisti vi si appassionano: Luca Signorelli, il Sodoma che ne diventa uno specialista, il Perugino, Filippino Lippi, il misterioso pittore veneto di cui non è conservato quasi nulla Morto da Feltre. A fine ‘400 le grottesche si diffondono come una moda in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, a Lucca …
Raffaello come le usa?
Compie un salto culturale. Prima di lui erano usate per parti marginali dei dipinti, per le cornici, per le predelle. Anche Signorelli nei suoi affreschi nel Duomo di Orvieto le usa nello zoccolo in basso: erano un sistema decorativo all’antica, estroso, libero, fantastico, ma sempre ai margini. Il Sanzio per primo invece adotta le grottesche come sistema decorativo globale per un ambiente, una stanza. Il primo esempio che verrà ricostruito in mostra con una proiezione è la “Stufetta del cardinal Bibbiena”: luogo importantissimo, sconosciuto ai più perché vicino agli appartamenti privati in Vaticano, e utilizzato per i bagni a vapore. Nel 1516 Raffaello decorò dal pavimento al soffitto questo piccolo ambiente con grottesche, stucchi e marmi policromi: dà l’impressione di entrare in un ambiente pompeiano o di Ercolano. In Vaticano le impiegò anche nella Loggetta, nell’appartamento del Bibbiena, nelle logge di Leone X oggi dette di Raffaello, nel grande corridoio di passeggio dove le grottesche hanno grande supremazia. L’artista le usò invece in modo marginale negli affreschi nelle stanze vaticane. Dopo che il pittore morì su suoi disegni gli allievi misero in opera un enorme ciclo di grottesche e stucchi all’antica a Villa Madama. Per tutto il ‘500 le grottesche di Raffaello derivate da quelle antiche si propagarono in Francia, Germania, in Europa.
A noi le grottesche paiono manifestazioni dell’irrazionale, del bizzarro, eppure affascinarono un pittore che impostò la propria cifra sulla nitidezza, sul dettato chiaro delle forme, su impianti sostanzialmente razionali. Come spiega questa apparente contraddizione?
Già nelle fonti classiche Vitruvio o Orazio criticarono con durezza le grottesche considerandole immagini assurde, innaturali, perfino censurabili perché mescolavano un animale con una pianta o un essere umano in modo fantastico. Ma nel primo secolo dopo Cristo e soprattutto a partire da Nerone dominarono la pittura romana: permettevano all’artista di inventare in libertà anche le immagini più oniriche e surreali. Ed è proprio questo elemento di creatività a sedurre gli artisti rinascimentali. Ho definito le grottesche un esempio di “immaginazione al potere”. Quando Raffaello le vide si rese conto che era la reggia di Nerone, non le terme di Tito come molti pensavano, e rimase colpito dalla loro bellezza. Dopo essere rimaste sigillate sotto terra per millequattrocento anni quelle immagini avevano una straordinaria vivacità cromatica, oggi sono molto rovinate. Allora il pittore decise che erano un elemento classico, non anti classico, e quindi si legavano al suo grande progetto, fallito a causa della morte, del recupero della Roma antica e dell’arte classica che lo impegnò negli ultimi anni di vita.
Dell’argomento scrisse in un volumetto breve e denso lo storico dell’arte André Chastel. Il suo apporto?
È stato riedito di recente (La grottesca, Abscondita editore, pp 121, ill., € 18,00, ndr). Chastel ha dato l’input a raccontare questa storia non limitandola al ‘500 o al ‘700 e la porta fino al ‘900. Infatti in uno degli ambienti la nostra mostra vuole illustrare come le grottesche abbiano influenzato artisti come Salvador Dalì, Max Ernst, Paul Klee che videro in queste opere lo scatenarsi dell’irrazionale. Non a caso il Surrealismo si appassionò alle grottesche.

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