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“Se ci ascoltate, noi ragazzi neri e bianchi smontiamo pregiudizi con l’arte”

Al museo Maxxi di Roma nove giovani dialogano con i visitatori sulle opere della mostra “Afropolitan”. Ecco cosa raccontano

“Se ci ascoltate, noi ragazzi neri e bianchi smontiamo pregiudizi con l’arte”
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28 Giugno 2018 - 17.08


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Da cittadini bianchi, quando vediamo un africano carico di borse e mercanzia non scatta nella nostra testa l’etichetta “vu cumpra”? Se quell’africano appare in una nicchia di marmi in un’architettura presumibilmente cinquecentesca di un nobile palazzo veneto non rischiamo di restare spiazzati? L’immagine esiste, la vedete accompagnare questo articolo. A breve spieghiamo da dove salta fuori e in che modo una ragazza dallo sguardo vivace e riflessivo, e dalla pelle nera, mette in discussione il nostro comportamento istintivo, il nostro “pilota automatico” del pensiero quando un’immagine simile si stampa nella mente.

Nei giorni in cui a navi piene di donne e uomini disperati il vero premier Matteo Salvini impedisce l’attracco, con il plauso della maggioranza degli italiani, il Maxxi di Roma propone meritevolmente due mostre con artisti d’oggi dal continente africano: fino al 4 novembre “African Metropolis. Una città immaginaria” curata da Simon Njami ed Elena Motisi raduna un centinaio di sculture, foto, installazioni, video di 34 artisti tra Algeri e Città del Capo; fino al 14 ottobre “Road to Justice. Memoria, rabbia, perdono, riconciliazione nei lavori di nove artisti africani” (tra cui un filmato di un maestro profondo e stupefacente come John Akomfrah) è più contenuta e l’ha curata Anne Palopoli.

La contraddizione dei termini
Fin qui i convenevoli: non guasterà dire subito che l’appuntamento al Maxxi è artisticamente ragguardevole perché molte opere sorprendono e sono “belle”, se passate il termine poco professionale. Né tuttavia bisogna tacere un errore di visione diffuso: anche se il centro romano accenna a “identità composita, eterogenea”, parla di “Africa” e non “Afriche” perché in Europa mescoliamo tutto in un unico minestrone quando paesi come Algeria e Angola, Kenya e Senegal sono radicalmente diversi tra loro. Per capirci: che direste se da un altro continente vedessero italiani, croati, polacchi, russi, inglesi e portoghesi tutti uguali e culturalmente indistinti perché accomunati dalla pelle bianca?

Il Maxxi però travalica l’esperienza della semplice passerella di opere. La Fondazione ha affidato a sei giovani donne e tre uomini tra i 19 e i 30 anni il compito di raccontare ai visitatori disposti ad ascoltare un’opera ciascuno dalla loro ottica personale e con uno sguardo speciale: non lo sguardo del critico d’arte, quanto lo sguardo del rifugiato, della ragazza romana dalla pelle bianca e della ragazza romana dalla pelle nera. È lo sguardo di chi sui temi sollevati dalle opere si è confrontato e magari ha pure litigato con incontri, scambi, discussioni coordinati da Marta Morelli, dell’Ufficio educazione del museo. E cosa ha generato questo lavoro di scambi? Converrà dare la parola ad alcuni di questi giovani mediatori.

“Guardiamo gli stereotipi”: i giovani raccontano

Dall’accento inconfondibilmente romanesco, nata a Roma,  Monique Yuma si pone davanti al “Merchant of Venice” di Kiluanji Kia Henda, il mercante di borse nella nicchia di marmi in abiti antichi che rimanda all’ebreo del dramma di Shakespeare, osteggiato perché ebreo. “Mi smuove emotivamente, la foto rappresenta lo stereotipo che abbiamo in testa del venditore ambulante. Lo consideriamo per la professione, non sulla base della dignità. Con quelle borse, lo giudichiamo. Per noi quindi l’abito fa il monaco”. Il rimbalzo emotivo interno qual è? “La foto smuove il senso di colpa perché scatta automaticamente anche in me lo stereotipo su quest’uomo. Io lavoro in un bar, per me è diverso, posso fare cose che mille altri non possono fare. Sono fortunata”. Fortunata perché lavora, perché si impegna? “Sono tempi in cui ci si dice fortunati per lavorare”, risponde la 24enne. Dell’esperienza con il Maxxi, cosa pensa? “Sono molto soddisfatta: ci siamo confrontati tra persone diverse”. Domanda di rito: ha mai subito discriminazioni per la pelle? “Sì”.
Altra romana, lei dalla pelle bianca e genitori da sempre italiani: Beatrice Donnini, di 23 anni. “Ci siamo occupati di proporre ai visitatori una lettura alternativa. Non spieghiamo le opere, che sono un mix tra cultura africana tradizionale e contemporanea, non siamo storici dell’arte. Diamo una lettura maturata dallo scambio tra noi”. Chiosa Tatiana Soares Ramos, 27enne diventata cittadina italiana a 18 anni: “Partiamo dal nostro vissuto. Non spieghiamo l’opera, quanto come leggiamo l’opera dopo lo scambio tra noi. Per quanto mi riguarda, in me sono affiorati ricordi”. Ha scelto, tra una serie di foto in bianco e nero scattate da Akinbode Akinbiyi, una donna mentre cammina e indossa una camicia bianca: ”Ripenso al vissuto di mia madre. Diceva di vestirsi in abiti occidentali per essere visti in modo diverso. Lo stesso vale per i capelli, per esempio nel lisciarli”: Alexandra Gomes Morais ha un accento romano nel quale i romani colgono una venatura barese perché ha vissuto anni nel capoluogo pugliese. Di origini capoverdiane senza aver mai messo piede nell’arcipelago di fronte al Senegal, 29 anni, ha selezionato l’artista Mimi Cherono Ng’ok: “Nella foto dove si vede una foresta mi ricorda foto delle foreste a Capo Verde” mentre nelle “Falling Houses” di Pascale Marthine Tayou, casette-baracche sospese con il tetto in giù, Alexandra rivede anche “le baraccopoli dell’India”.

Considerando il clima di diffidenza, per non di astio o di odio in circolazione, questi ragazzi sembrano fiduciosi e molto consapevoli di quanto si muove intorno. Al di là delle parole, i gesti e gli sguardi mostrano un desiderio di confronto, di misurarsi e di misurare il mondo. “Teniamo a dire che per questo lavoro che ha richiesto molto tempo il museo dà un piccolo compenso – interviene Marta Morelli – è stata anche un’occasione di lavoro. Abbiamo scelto i nove (i non intervistati sono Isata Jalloh, 34 anni, e Franky Kuete, 19 anni) perché ognuno ha più caratteristiche di un gruppo eterogeneo. Molti di loro interagiscono in coppia con i visitatori, la coppia favorisce l’incontro”. Fatou Sokna, anche lei dalla pelle nera, 23 anni, cita l’audio di un’opera di Lucas Gabriel: “Si sentono i rumori di una città. A me ricorda il brusio del mercato di piazza Vittorio all’Esquilino a Roma, nella sezione alimentare, dove si ascoltano tanti idiomi diversi”. Invece le 120 bamboline in sequenza di Abdulrazaq Awofeso la rimandano a quando, 17 anni fa, andò da piccola in Senegal e si portò una bambolina a casa.

Capitalismo o consumismo? Il lapsus curioso

Salahaldin Siddig, 24 anni, è da un anno rifugiato in Italia dal Sudan. Viene dal l Centro Baobab di Roma come il 19enne Franky Kuete. Siddig ha scelto “Le Salon Bibliothèque” di Hassan Hajjaj che riproduce una libreria marocchina: “Ci ho visto strumenti di origine islamica che ho visto spesso nella cultura sudanese: evocano ricordi di quando, studente, a cena parlavamo con amici di economia, di politica, di capitalismo”. Eh sì, il capitalismo … “No, intendevo consumismo”. Siddig deve affinare la lingua, eppure il suo suona più un lapsus politicamente significativo che un errore.

Si avvicina Jean Hilaire Juru, con genitori dal Ruanda, accento romano e fitta capigliatura. Il 26enne rimanda agli ideogrammi al neon di François-Xavier Gbré: “La scritta al neon in cinese rispecchia la nuova colonizzazione dell’Africa. L’artista ha una visione duale, anche un po’ positiva. Da parte mia ho analizzato qual è il riscontro sociale della colonizzazione cinese e domando: molti giovani africani vanno via dalle loro terre mentre i cinesi investono in Africa ed è un male?” Jean HilaireJuru ha uno sguardo franco, pone la domanda con il sorriso di chi desidera confrontarsi e gli interrogativi sulla colonizzazione passata e odierna si insinuano. “C’è un’altra questione: si parla di Africa ma non è così. L’Africa occidentale è diversissima alle altre. Lei come si definisce? Italiano, non europeo”. Già. Jean Hilaire Juru accenna un sorriso garbato e discreto. Emerge un desiderio di confronti civili e rispetto reciproco, tra questi ragazzi, che dovrebbe trovare ascolto più spesso, in questa Italia carica di rabbia.

Con la Fondazione del Maxxi, presieduta da Giovanna Melandri, ha collaborato il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione con una decisione presa prima dell’attuale governo. Il principale partner del museo e delle mostre è l’Eni: brava, un sostegno degno di lode. Tuttavia neanche qui si può tacere: la Procura di Milano ha di recente accusato il colosso dell’energia di presunti atti di corruzione in Nigeria. Sarà giusto ricordare infine come la doppia rassegna segua l’esposizione romana di autori africani contemporanei tenuta alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea da marzo al 24 giugno “I is an other be the other”. Chissà se il governo a trazione leghista cercherà di impedirne altre.

Per info, incontri con autori, serate: www.maxxi.art

 

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