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Da Ciro a Pamuk, scopri l’arte di raccontare l'arte

Come un antico cilindro mediorientale diventa anche azione politica: lo illustra Cinzia Dal Maso in questo estratto dal libro “Racconti da museo”

Da Ciro a Pamuk, scopri l’arte di raccontare l'arte
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20 Aprile 2018 - 12.49


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“Racconti da museo. Storytelling d’autore per il museo 4.0” è un volume appena pubblicato dalla Edipuglia di Bari (16 euro casa editrice alquanto vivace su temi d’arte e beni culturali) curato da Cinzia Dal Maso, archeologa, giornalista, divulgatrice, scrittrice, direttrice del magazine www.archeostorie.it, “editor in chief” di www.archeostoriejpa.eu.
Il titolo del libro potrà suonarvi un po’ troppo alla moda, poiché da qualche anno anche molti politici si sono riempiti la bocca di “storytelling” e 2.0, poi 3.0 e in attesa del 5.0. Non fatevi fuorviare: il libro ha materia originale. Racconta con più punti di vista come si può raccontare l’arte a tutti con competenza, precisione, piacere e come un simile racconto sia anche una forma di democrazia. Nell’introduzione l’archeologo Giuliano Volpe inquadra come una cultura ad ampio raggio possa mescolare arricchendo sia la conoscenza dell’arte che di se stessi partendo dal romanzo di Orhan Pamuk “Il museo dell’innocenza” e dalla casa-museo creata dallo scrittore turco premio Nobel nella sua Istanbul.

Pubblichiamo un estratto dal saggio di Cinzia Dal Maso “Non solo narrativa”. Dove un passo esemplifica bene anche come arte e politica si intreccino: “il Cilindro di Ciro da quando fu scoperto nel 1879, è considerato un simbolo potente di multiculturalismo e tolleranza religiosa (…) Il Cilindro di Ciro, insomma, è diventato nel mondo moderno un importante strumento di propaganda politica. Ha acquisito significati a lui estranei (…) E grazie alla narrazione di Neil McGregor (ex direttore del British Musemu, ndr) un piccolo oggetto, pure bruttino, che nessuno ammirerebbe in museo senza una spiegazione, è giunto a toccare delicatissimi problemi di politica internazionale, antichi e moderni”.

Tutto sta nei dettagli

Oriental Institute della University of Chicago, dal 20 agosto 2013 al 23 febbraio 2014. Era di scena la mostra Our Work. Modern Jobs, Ancient Origins (https://oi.uchicago.edu/museum-exhibits/special-exhibits/our-work-modern-jobs-ancient-origins ). I curatori hanno chiamato persone diverse, impegnate nei mestieri più disparati, e le hanno messe di fronte a oggetti che raccontano il loro stesso mestiere nel Vicino Oriente antico. C’erano il poliziotto e la stilista, il cowboy e il tassista, il giudice e il banchiere, il medico e il musicista, il matematico e il poeta, il fornaio e il birraio e molti altri. Ognuno di loro ha esordito presentandosi e raccontando una propria giornata di lavoro, ma poi si è confrontato con l’oggetto antico e ha immaginato la vita del suo ‘collega’ di migliaia di anni fa, alcuni addirittura speculando sulle origini della professione. Una agente immobiliare ha colto immediatamente la parabola percorsa dal proprio mestiere dai tempi della Chicago stone, contratto di compravendita sumerico inciso su pietra, al proprio progetto di realizzare compravendite interamente online: la garanzia di eternità che la pietra forniva è diventata oggi più volatile che mai, ma non per questo meno eterna, almeno nelle intenzioni. Ogni professionista in qualche modo ha dialogato col proprio collega antico, e si è posto domande inedite su se stesso e sul passato. Ognuno ha scoperto qualcosa di nuovo su se stesso oltre che sul passato.

Il vero storytelling sa fare anche questo: trarre dai particolari significati impensati. Lo fa soprattutto quando applica in contemporanea un’altra regola aurea della comunicazione: toccare i cuori di chi ascolta facendo capire che quanto si racconta lo riguarda direttamente. Il coinvolgimento personale è la vera chiave per aprire la disponibilità a conoscere. Costruisce una base di conoscenze già note a cui poter ancorare in sicurezza l’ignoto. Perché l’ignoto da solo ci spaventa, suscita allontanamento o persino repulsione. Costa troppa fatica affrontare l’ignoto di petto, non è da tutti. Ma se in quell’ignoto intravedo un barlume di familiarità, allora subito m’illumino e mi predispongo all’ascolto. E come in tutte le cose, l’unione produce qualcosa di ben più grande della mera somma delle parti: il confronto con nuove conoscenze cambia anche noi stessi e le nostre certezze.

Probabilmente nessuno dei professionisti coinvolti nel progetto di Chicago aveva un interesse spiccato per il Vicino Oriente Antico, né avrebbe mai visitato il museo universitario di propria volontà. Però è stato stimolato dalla curiosità verso il ‘collega’ antico, dal desiderio di sapere nei particolari come svolgesse il proprio mestiere. Il tassista ha osservato com’erano fatti i carri in antico, il poeta come si incideva con lo stilo l’argilla, il cowboy ha ammirato le scene agresti antiche, l’agente immobiliare ha visto se stessa cinquemila anni fa, con lo stesso identico problema. E ragionando sugli strumenti antichi, ogni professionista ha capito meglio il senso dei propri strumenti di lavoro odierni. Ha illuminato di luce nuova la propria realtà. In fondo al museo si va proprio per questo: per arricchire, attraverso il confronto con le vite altrui (passate o presenti poca differenza fa), la propria vita quotidiana.

Dilatare lo sguardo

Ferrara, Palazzo dei Diamanti, dal 24 settembre 2016 al 29 gennaio 2017. Orlando Furioso 500 anni è il titolo di una mostra (http://www.palazzodiamanti.it/1434) che ha usato opere d’arte e oggetti per tracciare un quadro di quanto vedeva e sentiva Ludovico Ariosto ai suoi tempi, di ciò che aveva nutrito il suo immaginario. Ogni oggetto, dunque, non aveva importanza in sé ma per la sua capacità di farci entrare nella mente dell’Ariosto: le sue idee, i suoi sogni, i desideri, le influenze della mitologia classica, l’uso dell’arte nelle corti rinascimentali. La mostra era dunque un grande racconto che ha saputo colpire anche le nostre fantasie, oltre a quelle ariostesche. Ci ha fatto ‘dialogare’ con Ariosto e il suo universo di paladini, battaglie e amori, e lui ci è diventato amico se magari a scuola non ci era piaciuto. Nel contempo, attraverso le meraviglie di Ariosto e nostre, ci ha svelato interi mondi, reali e immaginari.

Ecco, il segreto dello storytelling è proprio spingere il nostro sguardo ben oltre gli oggetti di fronte a noi, verso lidi inconsueti, ignoti, persino scomodi a volte. Stimolare la nostra curiosità e temerarietà. Basta qualche cenno, non serve molto, però serve far capire che l’oggetto non è fine a se stesso ma fa parte di un mondo, e far intravedere spiragli da quel mondo verso altri universi sconosciuti. Anche la mostra su Ariosto, poi, ha giocato la carta dell’esperienza personale, ma in modo e con intenzioni diverse rispetto a Chicago. Ha puntato sulla persona del curatore, Guido Bergamini, voce narrante dell’audioguida che lì spiega il ruolo di ciascuna opera nell’economia della mostra. Spiega, con tono mai didascalico ma pacato e colloquiale, le proprie scelte e la propria idea, e invita il visitatore a ripercorrere i suoi passi. Si mette in prima linea e ti spinge a seguirlo. Dice: io ho fatto scoperte fantastiche vieni a scoprire anche tu. E seguire una persona, si sa, è tutt’altra cosa che seguire asettiche e astratte didascalie.

Gli oggetti, però, non sono mai fatti per un solo fine. Quel che Bergamini ha usato per narrare l’immaginario di Ariosto, può narrare anche altri temi cinquecenteschi e non solo. Gli oggetti infatti “hanno una grande qualità: vivono molto più di noi. Noi moriamo, loro sopravvivono. Noi abbiamo una vita, loro ne hanno molte. Noi abbiamo una biografia, e loro molte”. Questo ci ha fatto capire nel suo TED Talk del 2011 Neil MacGregor, allora direttore del British Museum e fortunato autore del progetto La storia del mondo in 100 oggetti, programma radiofonico poi diventato un libro di successo.

In quel discorso MacGregor ha raccontato 2600 anni di storia del Vicino Oriente grazie a un solo oggetto: il cosiddetto Cilindro di Ciro che il re di Persia ha posto nelle fondamenta di un edificio dopo aver conquistato Babilonia nel 539 a.C. Su quel piccolo cilindro in terracotta, Ciro ha raccontato come ha restituito la libertà a tutti i sudditi che i Babilonesi avevano ridotto in schiavitù, e concesso a ciascuno di venerare il proprio dio. Lui liberò gli Ebrei e permise loro di tornare nella propria terra: il Cilindro di Ciro è anche una delle prime prove archeologiche della veridicità dei racconti biblici. E da quando fu scoperto nel 1879, è considerato un simbolo potente di multiculturalismo e tolleranza religiosa, e persino esaltato come la ‘prima carta dei diritti umani’. È stato usato un po’ da tutti: dagli Ebrei desiderosi di tornare in patria dopo quasi duemila anni come da lord Balfour che sostenne la loro causa. Lo scià di Persia lo volle a Teheran nel 1971 per le celebrazioni dei 2500 anni dalla fondazione dell’Impero persiano, e da ultimo Mahmud Ahmadinejad ebbe anche lui il Cilindro di Ciro in patria nel 2010-2011 per mostrarsi paladino della libertà in un Medioriente martoriato.

Il Cilindro di Ciro, insomma, è diventato nel mondo moderno un importante strumento di propaganda politica. Ha acquisito significati a lui estranei. Anche se, in fondo, è nato già a suo tempo come strumento di propaganda. Ciro è entrato in Babilonia senza combattere, ma usando abilmente l’arma della libertà religiosa, avendo annunciato che avrebbe restituito ai sudditi gli antichi dei soppressi dal re babilonese. Anche la concessione agli Ebrei è stata fatta per mettere lo zampino sulle loro terre. Ha dunque usato la tolleranza per creare il suo impero. Cosa che non pare essere riuscita, invece, ad Ahmadinejad. Tutto si tiene, insomma. E grazie alla narrazione di Neil McGregor un piccolo oggetto, pure bruttino, che nessuno ammirerebbe in museo senza una spiegazione, è giunto a toccare delicatissimi problemi di politica internazionale, antichi e moderni.

 

 

 

 

 

 

 

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