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L’uro, il progenitore dei bovini domestici

Una ricerca pubblicata su Nature e condotta da un consorzio internazionale di paleogenetisti rivela i segreti evolutivi del bovino selvatico, un tempo signore incontrastato delle foreste e delle steppe euroasiatiche.

Pitture rupestri di uri, cavalli e cervidi.
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15 Novembre 2024 - 17.34


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di Lorenzo Lazzeri

Nella vasta trama della storia naturale, pochi animali evocano i profondi legami tra uomo e ambiente come l’uro (Bos primigenius). Questo bovino selvatico, estintosi nel 1627 a seguito della caccia incontrollata, in Polonia, rappresenta il progenitore indiscusso del bestiame domestico, la cui eredità genetica continua a permeare la vita umana anche a livello culturale. Una recente ricerca pubblicata su Nature, condotta da un’equipe internazionale di genetisti e paleontologi, tra cui Luca Pandolfi dell’Università di Pisa, ha intrapreso un’analisi senza precedenti per svelare i segreti evolutivi di questa specie titanica.

Attraverso l’esame di 38 genomi antichi provenienti da resti fossili rinvenuti in Eurasia e Nord Africa, lo studio ha tratteggiato le complesse dinamiche genetiche e ambientali che hanno modellato l’uro durante le ere glaciali e post-glaciali. I risultati rivelano l’esistenza di quattro linee ancestrali distinte – europea, sud-ovest asiatica, nord-asiatica e sud-asiatica – ciascuna forgiata da transizioni climatiche e pressioni antropiche. Come ha spiegato Luca Pandolfi, «l’analisi genetica ci permette di tracciare una mappa evolutiva intricata, illuminando non solo la storia dell’uro, ma anche il suo impatto sulla cultura e sull’ecologia umana».

Lo stesso Giulio Cesare, nel De Bello Gallico (libro VI, capitolo 28) descrisse gli uri come creature imponenti, quasi paragonabili agli elefanti, dotate di forza straordinaria e natura indomita: Hi sunt magnitudine paulo infra elephantos, specie et colore et figura tauri. Magna vis eorum est et magna velocitas. (Sono di dimensioni poco inferiori a quelle degli elefanti, simili per aspetto, colore e forma a un toro. Hanno una grande forza e velocità). Questo ritratto suggestivo trova conferma nei dati paleontologici: con un’altezza al garrese di quasi due metri e corna che superavano il metro, gli uri dominavano gli ecosistemi del Pleistocene.

Lo studio ha messo in luce come i processi di domesticazione abbiano coinvolto un numero limitato di individui, soprattutto della popolazione sud-ovest asiatica, innescando un restringimento genetico che ha definito la base del bestiame moderno (Bos taurus). Tuttavia, tracce di introgressioni successive, termine tecnico che definisce l’introduzione di geni di una specie nel patrimonio genetico di un’altra e ibridazioni con popolazioni selvatiche suggeriscono una dinamica più complessa e diffusa, dove l’uro selvatico continuò a influenzare geneticamente i bovini addomesticati in Eurasia ed altri luoghi.

La narrazione evolutiva dell’uro, tra adattamenti climatici, migrazioni umane e domesticazione, si intreccia con la sua iconografia culturale, dalle pitture rupestri del Paleolitico ai miti e riti delle civiltà neolitiche; lo studio, pionieristico nel suo approccio genomico, ridefinisce la conoscenza della biodiversità antica, gettando luce sulle sfide future della conservazione e gestione genetica degli animali domestici.

Di fatto, il contributo di Pandolfi insieme ai numerosissimi colleghi che hanno preso parte allo studio del Trinity College di Dublino, dell’Università di Copenaghen e di Pisa, sottolineano come l’eredità dell’uro non sia confinata a una storia di estinzione, ma continui a vivere con plasticità del genoma del bestiame moderno, creando un legame e una continuità tra uomo, natura ed evoluzione.

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