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L'appuntamento del mercoledì di Culture Globalist - 12 gennaio 2022

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12 Gennaio 2022 - 17.28


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di Lucia Mora

Circa un mese fa, il 10 dicembre 2021, è uscito il nuovo disco di Neil Young con i Crazy Horse. Si chiama “Barn”, ultimo tassello di una produzione vastissima (più di quaranta dischi, cifre folli per un singolo artista). Dove si colloca “Barn” rispetto a quella pletora discografica? Si avvicina al miglior album di Young o al peggiore? Proviamo a dare qualche coordinata.

Rust Never Sleeps (1979)
A mio parere il miglior disco di Neil Young, anche se sceglierne uno tra quelli usciti negli anni Settanta è difficile. Qualcuno forse mi maledirà per non aver scelto “Harvest” (1972), cioè quel coacervo di talento che contiene le più grandi hit del cantautore (Old Man, Heart of Gold e The Needle and the Damage Done); un disco meritatamente di successo. Trovo però che questo abbia qualcosa in più. Nasce dopo la maturità raggiunta con Crosby Stills e Nash, ma anche dopo una lunga crisi personale, dovuta a molti problemi di svariata natura: le morti di due membri del suo entourage, la salute malferma, la depressione, la dipendenza dalle droghe, la paralisi cerebrale del figlio. “Rust Never Sleeps” riemerge dalle ceneri di una produzione intrisa di dolore e di nichilismo: è la rinascita di Young. Un disco indimenticabile che profuma di riscatto.

Landing on Water (1986)
Uno o più passi falsi sono molto, molto verosimili, per chi sforna continuamente decine di opere. Neil Young non fa eccezione, anzi: diciamo che gli anni Ottanta non sono stati esattamente indimenticabili come i Settanta. “Landing on Water” ne è la prova: un album di ritagli recuperati da vecchie sessioni con i Crazy Horse che già allora non erano soddisfacenti, pubblicato quasi per ripicca dopo essere stato citato in giudizio dalla sua casa discografica. Ma avrei potuto nominare anche “Old Ways”, sempre anni ‘80, o il più giovane “Are You Passionate?” del 2002. Tutti lavori a cui manca la creatività e la vena poetica, tormentata e intensa che contraddistingue le meraviglie di cui Young si è più volte dimostrato capace.

Barn (2021)
Quindi di “Barn” che cosa ne facciamo? Siamo dalle parti dei fasti dei ‘70 o delle delusioni successive? Né l’una né l’altra, direi, anche se il giudizio è sicuramente più positivo che negativo. Questo perché Neil Young è un maledetto ruffiano che sa che cosa piace a chi lo ama, e infatti il disco comincia subito con una captatio benevolentiae: armonica, dolci tocchi alle corde della chitarra acustica e atmosfera da focolare, un po’ à la “Nebraska” di Bruce Springsteen. Del resto, ad accompagnare Young c’è proprio Nils Lofgren, polistrumentista della E Street Band springsteeniana, già suo collaboratore dai tempi di “After the Gold Rush” (piccolo capolavoro del 1970). Mettiamola così: la parte più bella del disco è proprio l’atmosfera che si respira ascoltandolo e che nasce dal luogo in cui è stato registrato, cioè un vecchio fienile in Colorado – lo stesso che si vede in copertina – dove quattro grandi musicisti si sono divertiti a comporre e a suonare. Nulla di paragonabile alle travolgenti emozioni dei tempi passati, ma forse è anche meglio così. L’immagine di un cantautore consapevole del proprio lungo cammino, che non vuole più fare il rivoluzionario ma solo sorseggiare una birra sotto la luna piena del Colorado, è commovente a sufficienza.

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