"Mio nonno era un cowboy": la storia della follia delle armi negli Usa raccontata da James Grady | Culture
Top

"Mio nonno era un cowboy": la storia della follia delle armi negli Usa raccontata da James Grady

L'autore del capolavoro "I sei giorni del Condor' in esclusiva per Globalist con un commento sulla strage di Boulder

"Mio nonno era un cowboy": la storia della follia delle armi negli Usa raccontata da James Grady
Preroll

admin Modifica articolo

23 Marzo 2021 - 19.44


ATF

a cura di Rock Reynolds 

Un uomo entra in un supermercato e, invece di piazzare beni di consumo nel carrello, inizia a sparare all’impazzata, uccidendo una decina di innocenti. È successo da poche ore a Boulder, cittadina universitaria del Colorado, a poche decine di chilometri da Denver. Boulder è uno dei centri più progressisti degli Stati Uniti, la culla del pensiero alternativo dove di fatto è stata attuata per la prima volta un’autentica liberalizzazione della marijuana e dove si respirano cultura e avanzamento sociale.

Eppure, non sorprende più di tanto che un uomo – come spesso succede negli USA, solitario e apparentemente disturbato se non animato da propositi vendicativi – si muova tra la folla con un fucile d’assalto e scarichi la sua frustrazione, oltre che il caricatore, sulla folla. Da anni osservo la realtà di questo affascinante paese di cui ho rischiato di diventare cittadino, eppure a tutt’oggi non ho saputo dare una spiegazione razionale a un fenomeno che, a dispetto di molti benpensanti, è davvero tipicamente americano. La sensazione, corroborata da decine di massacri negli ultimi vent’anni, è che gli USA siano una nazione culturalmente allo sbando, priva di quella bussola morale che ha sempre rappresentato un punto di riferimento ineludibile, comunque la si pensi. La rivendicazione del diritto individuale all’autodifesa e, dunque, al possesso di una o più armi da fuoco, sancito dal secondo emendamento della costituzione, suona sempre più farsesca. Ciononostante, è a tale antiquato e inadeguato codicillo che la cecità maggioritaria di un popolo ancor oggi si appiglia. E, francamente, non vedo spiragli di luce all’orizzonte. Grazie al cielo, gli USA hanno saputo dare e danno tuttora al mondo grandi pensatori e grandi personalità culturali. Per esempio, James Grady, conosciuto al grande pubblico per il suo folgorante romanzo d’esordio, I sei giorni del Condor (diventati tre nella fortunatissima pellicola del 1975 diretta da Sidney Pollack e interpretata da tre mostri sacri della recitazione come Robert Redford, Faye Dunaway e Max von Sidow). In pieno maccartismo, James Grady avrebbe rischiato grosso, per via di posizioni politiche tendenti al rosso, secondo gli standard americani. Interpellato da noi sulla strage di Boulder, che segue di una sola settimana quella di Atlanta, Grady si è lasciato andare, aprendo le cateratte della sua anima frustrata di paladino della giustizia e del progresso.

‘Mio nonno era un Cowboy’ 

“Mio nonno era un cowboy. Possedeva una pistola, probabilmente un revolver Colt. Forse, spostare del bestiame da un luogo all’altro lo spingeva a tenere un fucile nel fodero, sulla sella del suo cavallo. Ma le armi da fuoco per lui erano un mero attrezzo. Non le portava con sé quando andava in città.

Sono cresciuto in una cittadina sulle praterie del Montana settentrionale, una cinquantina di chilometri a sud del Canada, un centinaio di chilometri a est delle Montagne Rocciose e un milione di chilometri da qualsiasi altro luogo. Ai tempi di Nonno Harry e ai miei tempi, Shelby era la seconda città più violenta dello stato. La città più violenta era la citta mineraria di Butte, il pozzo di soldi in cui il detective Dashiell Hammett della Pinkerton aveva rifiutato un contratto offertogli da una grossa azienda per uccidere un attivista sindacale di sinistra che, nel giro di una settimana, fu linciato.

La mia giovinezza la passai negli anni Cinquanta e Sessanta. Ricevetti la mia prima arma letale quando avevo più o meno 10 anni, un fucile Remington calibro 22 con otturatore a cilindro che usavo per sparare ai citelli nel parcheggio in terra battuta del cinematografo gestito da mio papà. Lui e io possedevamo delle pistole che rispolveravamo nel giorno dell’apertura della stagione della caccia agli uccelli, scoprendo immancabilmente che non ci piaceva calpestare le gelide praterie autunnali. In seguito, vendetti entrambe le armi per finanziare i miei giorni da scrittore affamato.

Al tempo, gli americani crescevano con i film western e polizieschi e le pistole erano la salvezza, sbaragliando tribù indigene come quella dei Piedi Neri.

Molti di noi erano convinti che le armi da fuoco fossero una figata.

Ma avevano il loro posto. C’erano delle regole. In parte per via della guerra tra bande di italiani e irlandesi a Chicago da cui era scaturito il massacro di San Valentino e in parte per via della nostra generazione della Seconda Guerra Mondiale, sapevamo cos’erano in grado di fare e solo i cittadini dotati di licenze speciali potevano possedere un mitra.

A metà degli anni Sessanta, la National Rifle Association – la cui attività primaria era consistita nell’insegnare ai ragazzini come impugnare un’arma in sicurezza e come sparare – iniziò ad alimentare la paura degli americani di perdere il loro diritto costituzionale al “porto d’armi”. La crociata dell’NRA contro la lobby “contraria alle armi” iniziò a ricevere qualche spicciolo. La grande finanza si mise al timone di quella campagna e spinse fino alla Casa Bianca certi politici favorevoli alle armi da fuoco.

Ho scritto delle colpe dell’NRA e della politica fittizia sulle armi, qualcuno ha provato a spararmi, sono stato in giro in macchina con dei poliziotti e ho assistito a omicidi commessi con armi da fuoco, mi sono portato appresso una pistola – una lunga storia noir – e mi è piaciuto andare al poligono a sparare. Sono un pessimo tiratore.

Buona parte degli americani che usano armi da fuoco – a eccezione della parte noir – sono una versione migliore di me.

In buona parte non prenderebbero mai in mano un’arma con l’intenzione di andare a uccidere chiunque trovino nei gruppi che decidono di prendere di mira: donne asiatiche o gente che fa la spesa in un negozio di alimentari.

Se sento un altro politico offrire “solidarietà e preghiere”, mi metto a urlare.

I politici sono il problema centrale di queste stragi. Un modo per evitare ulteriori stragi simili è impedire a chiunque disponga di somme enormi di eleggere certi politici. Bisogna fare campagne di riforma e porre limiti di spesa: limiti alle donazioni, limiti alle lobby. Avere accesso pubblico alle documentazioni che attestano quei soldi. A quel punto, forse la ragionevolezza e non la paranoia contribuiranno a trovare soluzione che ci salvino dai killer dal grilletto facile.

Un semplice inizio consiste nel togliere i fucili d’assalto dagli scaffali dei negozi. Di opzioni a disposizione dell’autodifesa ne restano comunque tante.

Un secondo cambiamento tangibile per fermare gli omicidi commessi con le armi da fuoco è avere e imporre migliori regole di transazione e possesso. Concentrandoci, allo stesso tempo, su chi spara. Capire cosa spinga tali persone a uccidere, a parte essere completamente fuori di melone. E fare qualcosa al riguardo. Combattere il razzismo. Combattere le assurde distorsioni del sesso create dalla pornografia e da gruppi religiosi che pensano che ogni donna sia una tentatrice come Eva e, dunque, un bersaglio legittimo. Lasciare che gli uomini capiscano come essere meravigliosamente sexy senza essere assurdi o malvagi. Trovare modi migliori per gestire il potere e la frustrazione della solitudine che tutti proviamo. Combattere le menzogne e le distorsioni agevolate enormemente in questi giorni insanguinati dalla rete Internet, che in realtà amplifica alienazione e solitudine. Si può giocare a un videogame solo per un po’ prima di odiare quel videogame in cui si resta impantanati senza realmente sentire di avere una collocazione.

Abbiamo bisogno di migliori programmi operativi per la salute mentale che non si trasformino nel Grande Fratello di Orwell. Serve che la cittadinanza presti attenzione, non solo per evitare che qualcuno le spari, ma pure per scorgere i segni di un potenziale assassino tra le persone che conosce. Tutte le persone che hanno compiuto una strage conoscevano qualcuno. Dobbiamo capire come contenere le menzogne di Internet, dei grandi conglomerati aziendali e dei politici riguardo alle minacce ai danni dei possessori di armi da fuoco. Abbiamo bisogno di buonsenso ed empatia. E dobbiamo seguire l’esempio di Nonno Harry e della canzone di Johnny Cash: “Don’t take your guns to town”, non ti portare appresso le armi quando vai in città.

Già, le possibilità che una di queste cose positive accada sono lunghe quanto la lista delle vittima di una strage compiuta con armi da fuoco.

E allora? Se non lo facciamo noi, chi lo fa?”

 

Native

Articoli correlati