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Dall’ordine imposto al grido di libertà: l’eredità di Reza Pahlavi e le proteste iraniane

Cento anni dopo l’ascesa autoritaria del primo Scià di Persia, l’Iran continua a dimostrare come un ordine imposto dall’alto non garantisce legittimità. Le proteste nel paese rivelano ancora il sistema statale basato su clientelismo, corruzione e repressione, che soffoca le riforme, delegittima il popolo e lascia scoperte fragilità istituzionali.

Dall’ordine imposto al grido di libertà: l’eredità di Reza Pahlavi e le proteste iraniane
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13 Dicembre 2025 - 10.37


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di Marialaura Baldino

Era il febbraio del 1921 e un giovane ufficiale della Brigata dei Cosacchi persiani, Reza Khan (poi Reza Shah Pahlavi) guidò un colpo che occupò Teheran, consolidando il controllo dell’esercito e, attraverso manovre politiche e un’Assemblea compiacente, trasformando in pochi anni la sua autorità militare in una dinastia monarchica. Deposto l’ultimo Qajar, le elezioni dell’assemblea costituente persiana, tenutesi il 12 dicembre 1925, segnarono l’incoronazione di Reza come Shah (italianizzato in Scià, che significa Re, n.d.r.), segnando la nascita della dinastia Pahlavi e l’avvio di una modernizzazione autoritaria dello Stato. 

Quello di Reza Kahn non fu un colpo di stato improvvisato, ma il culmine di una strategia militare e politica; sfruttando il vuoto d’autorità a seguito della prima guerra mondiale, gli appoggi diplomatici esterni e il mancato consenso verso la precedente dinastia, Kahn costruì un apparato statale centralizzato, laico (in parte) e impegnato nel far fronte alle autonomie regionali e ai poteri religiosi.

Anche le sue riforme (la rete stradale; la modernizzazione dell’amministrazione; il sistema scolastico) furono sì rilevanti ma sempre intrecciate alla repressione politica, alla personalizzazione del potere e alle persecuzioni degli oppositori politici.

Già allora veniva a crearsi un paradosso che ancora oggi affligge la regione: la forza dello Stato non coincide con la sua legittimità. Basta uno sguardo all’Iran contemporaneo per capire che da cento anni il Paese è rimasto intrappolato in una politica condizionata da milizie potenti e da interessi esterni da parte di paesi occidentali, con un sistema statale basato su clientelismo, corruzione e repressione, che soffoca le riforme, delegittima il popolo e lascia scoperte fragilità istituzionali sfociate in lotte interne e violente rivoluzioni.

Il primo Pahlavi, che al tempo consolidò lo Stato attraverso meccanismi di esclusione politica, ha lasciato in eredità alla sua Persia l’illusione che l’“ordine dall’alto” sia un sostitutivo di legittimazione. Illusione che, con percorsi e attori diversi, ha profondamente consumato non solo l’Iran, ma l’intera regione nei decenni successivi. 

Il risultato è una politica ancora fortemente condizionata da élite, milizie e influenze straniere. Organizzazioni paramilitari come le Forze di Mobilitazione Popolare (PMF), molte delle quali hanno legami con l’Iran, hanno conquistato spazi politici candidandosi e coalizzandosi alle forze politiche che controllano il paese, mantenendo capacità militari e reti di influenza economica.

I numerosi rapporti di analisti indipendenti e organizzazioni per i diritti umani pubblicati negli ultimi anni documentano come questa commistione fra potere politico e forza armata privata limiti sempre più la sovranità statale, ostacolando le riforme e alimentando pratiche repressive violente.

Oggi, lo scontro con quell’illusione risuona nelle strade e nelle numerose manifestazioni popolari. Dal 2022 un movimento di protesta ha scosso il Paese dopo la morte di Mahsa (Jina) Amini, una giovane donna morta in custodia della polizia per un presunto mancato rispetto del codice sull’hijab. Le parole dello slogan, sintetizzato in “Donna, vita, libertà”, sono diventate il grido di milioni di persone in Iran che reclamano non solo la fine della discriminazione di genere, ma anche un paese libero, il rispetto dei diritti umani e una società più giusta. La risposta delle autorità è stata – sempre – duramente repressiva, con centinaia di morti, migliaia di arresti e violazioni sistematiche dei diritti umani.

Il movimento ha assunto caratteri di maggiore disobbedienza civile sempre più diffusa, non più solo manifestazioni episodiche, ma sfide quotidiane alle norme più repressive imposte dallo Stato. Come nel più recente episodio avvenuto sei giorni fa, quando le autorità iraniane hanno arrestato due organizzatori di una maratona tenutasi sull’isola di Kish, dopo la diffusione di immagini di donne che correvano in gara senza hijab. La magistratura ha aperto un procedimento penale, sostenendo che l’evento – con circa cinquemila partecipanti – avrebbe violato la legge sulla “decenza pubblica”.

La lezione che l’Iran oggi continua a impartirci è che le società non possono essere realmente trasformate solo imponendo un ordine dall’alto; senza godere di diritti fondamentali ogni modernizzazione rischia di essere vuota. E le proteste di oggi non riguardano solo il diritto di non essere costretti a coprire il capo, ma un’emancipazione che attraversa tutto il corpo sociale: è questa la misura della vera libertà di un Paese.

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