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Trump si insedia: sull'orlo di un precipizio?

Sul fatto conversiamo con il professor Mario del Pero. Il Presidente degli Usa giura e il mondo cambia ma come?

Trump si insedia: sull'orlo di un precipizio?
In foto Donald Trump
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20 Gennaio 2025 - 15.28


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di Arianna Scarselli

A quattro anni dall’assalto a Capitol Hill Trump è pronto a tornare alla Casa Bianca e stavolta entrando dall’ingresso principale. Un personaggio che non si è mai trattenuto dal fare sfoggio del suo potere e delle sue idee, nella maggior parte dei casi razziste, suprematiste e imperialiste. Il nuovo Presidente americano è tuttavia sicuro di sé e non si è risparmiato nelle ultime settimane portando avanti una propaganda che lascia l’idea che il neo-eletto si senta ancora in piena campagna elettorale.

Oggi, nel giorno del suo insediamento, ne abbiamo parlato con Mario del Pero, professore ordinario di Storia internazionale e di Storia degli Stati Uniti all’ Institut d’Etudes Politiques a Parigi.  Autore di importanti studi sugli Stati Uniti d’ America e su personaggi politici statunitensi.

Oggi Trump giurerà come nuovo Presidente degli Stati Uniti, che cosa dobbiamo aspettarci?

Cosa aspettarsi da Trump, non è semplicissimo rispondere perchè ci sono due variabili indipendenti che definiranno ciò che che Trump farà e non sono prevedibili: la prima è l’ordine internazionale, la politica internazionale, a volte lo dimentichiamo, è contraddistinta da eventi non pianificati che impongono ripensamenti o scelte politiche diverse; basti pensare a quanto la guerra in Ucraina ha cambiato lo stato delle cose. George Bush nel 2000 ha vinto le elezioni promettendo un uso più selettivo degli strumenti militari e poi è arrivato l’11 settembre.

Il secondo elemento di imprevedibilità è Trump medesimo, una figura difficilmente etichettabile dal punto di vista politico, ideologico e di principi. Durante la sua amministrazione lanciò un’aggressiva campagna anti nordcoreana e poi divenne amicone di Kim Jong-un. Al momento resta però molto difficile fare delle previsioni. Probabilmente subito dopo l’insediamento comincerà a emanare degli ordini esecutivi, una sorta di decreti presidenziali che permettono di eseguire delle politiche pubbliche senza passare attraverso il voto del Congresso.

Possiamo aspettarci una politica almeno simbolicamente aggressiva di chiusura del confine meridionale e di espulsione dei migranti presenti illegalmente negli Stati Uniti con potenziali momenti drammatici, raid di agenti federali in quartieri di città come San Antonio, Phoenix, San Diego e rastrellamenti di messicani. Credo che vedremo qualcosa di molto aggressivo su quell’ambito, difficile pensare che però possa rivelarsi efficace quando ci sono 11 milioni di immigrati illegali, la maggior parte dei quali, peraltro, perfettamente integrati nella società americana. Certamente qualcosa di molto eclatante avverrà su questo tema.

In parallelo ci saranno degli ordini esecutivi atti a togliere regole e vincoli ad alcuni settori industriali come quello estrattivo -parliamo dei combustibili fossili- con un contestuale indebolimento delle agenzie federali competenti per l’applicazione di queste regole a partire dall’agenzia per la protezione dell’ambiente.
Terzo ambito di azione sarà quello che si svilupperà più lentamente.  E’ immaginabile un’aggressiva politica commerciale che farà uso di dazi e tariffe per colpire altri attori e l’obiettivo fondamentale di indebolire la Cina e ridurne il peso e la potenza nelle supply chains mondiali.

La democrazia è a rischio?

Credo che gli Stati Uniti stiano attraversando una profonda crisi della loro democrazia e la rielezione di Trump la incarna. Non ne è la causa, ma la rappresentazione. Abbiamo visto rieleggere un uomo che quattro anni fa cercò di promuovere un disegno eversivo atto a impedire la pacifica transizione dei poteri; nel 2020 Trump, presidente in carica sconfitto anche abbastanza nettamente, rifiutò di riconoscere l’esito di quel voto e propose una serie di iniziative volte a modificarne l’esito. Quella fu un’eversione dell’ordine democratico che è rimasta impunita e anzi ora vede l’artefice promotore di quella eversione tornare alla Casa Bianca.

Cosa pensa Trump dell’Unione Europea e in generale del resto del mondo?

Credo che l’Unione Europea sia fondamentalmente un nemico per Trump e per un pezzo di America. Questo dipende da un paio di ragioni: nella destra e in generale nella cultura politica americana l’antieuropeismo e l’eurofobia hanno radici profonde. L’EU è un anti-modello, nel 2019 il Council of Economic Advisers (CEA) produsse un rapporto richiesto dal presidente dove si comparava la qualità della vita negli Stati Uniti e nei paesi scandinavi, le social-democrazie nord-europee. Questo per dire che si vive molto, molto meglio negli USA; se andiamo a leggere quel bizzarro rapporto, ricchissimo di riferimenti euro-fobici notiamo che la cultura eurofobica è assolutamente diffusa, notiamo anche che gli standard che Trump usa, per misurare chi vince e chi perde nell’arena internazionale, partono dai deficit commerciali e che l’Unione Europea è un nemico per gli ampi attivi commerciali che alcuni suoi Paesi, compresa l’Italia, hanno con gli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti non hanno un deficit molto pesante solo con la Cina, il Messico o il Vietnam ma anche con l’Europa stessa. La Germania è il principale esportatore europeo verso gli Stati Uniti e l’Europa è nemica perché secondo questa retorica sta sconfiggendo commercialmente gli USA. Il pensiero che aleggia negli Stati Uniti è che loro spendono tantissimo per proteggere l’Europa quando gli europei non fanno la loro parte e promuovono forme di concorrenza sleali.

Oltre l’eurofobia e gli squilibri commerciali, la critica verso l’Unione Europea sta nella ricerca di una dotazione di strumenti regolamentatori nei confronti delle Big Tech, di Google e delle aziende americane ed è qualcosa a cui gli Stati Uniti si oppongono e  chespiega anche perché una parte della Silicon Valley si è schierata al fianco di Trump.

Il quadro che si sta delineando è teso, è solo questione di tempo prima che scoppi una guerra? 

Se andiamo a guardare le relazioni internazionali correnti la variabile è la competizione fra Stati Uniti e Cina, le politiche dell’amministrazione Trump saranno declinate in termini di rivalità con la Cina. Le pressioni sull’Europa sono legate anche a questo, gli USA vogliono che gli alleati europei partecipino meglio e più attivamente a un’azione di contenimento e contrasto della Cina. Basta prendere la Germania: negli ultimi 15 anni, in termini di scambi commerciali, di investimenti diretti e di delocalizzazione di aziende tedesche, i rapporti tra aziende tedesche e cinesi si sono fatti molto più stretti, c’è un’interdipendenza sino-tedesca molto più profonda oggi rispetto che a soli quindici anni fa. Gli Stati Uniti sono molto critici su questo, bisogna ridurre l’influenza globale della Cina nelle supply chains globali e gli europei devono fare la loro parte.

In secondo luogo, questa competizione con la Cina si svolge in tutto il pianeta: gli USA minacciano Panama dopo l’apertura alla Cina del 2017 quando il Paese ha accettato ingenti investimenti e, fare la voce grossa con Panama, serve anche a dare un messaggio al resto dell’America Latina dove capitali e investimenti cinesi sono fluiti copiosi negli ultimi 15 anni.

Parlando della Groenlandia gli Stati Uniti hanno già una base militare lì e beneficiano di diversi privilegi grazie ad un primo accordo del 1951 con la Danimarca. Oggi le risorse minerarie, l’importanza strategica e il cambiamento climatico -che rende percorribili rotte navali artiche prima non accessibili- portano gli Stati Uniti a guardare con maggior attenzione il Paese e a fare pressioni sull’Europa per avere privilegi ulteriori perché, sempre dentro la competizione globale con la Cina, l’isola che è sempre stata importante ora assume un ruolo ancora più centrale.

Deglobalizzazione, cosa pensa di fare Trump?

Deglobalizzare significa ridurre gli scambi economici globali, ripensare le rotte commerciali e per un Paese come gli Stati Uniti riportare produzioni industriali dentro il territorio americano (non fare outsourcing) e riacquisire autonomia e indipendenza in alcuni settori industriali, soprattutto in quelli considerati strategici. C’ è stata una deglobalizzazione negli ultimi anni, dopo la crisi del 2008, ma su questo gli studiosi non concordano. Se andiamo a vedere i dati la risposta è no non si può parlare di deglobalizzazione ma c’è stata una slowbalization, un rallentamento significativo della globalizzazione. Adesso bisognerà capire se questo rallentamento continuerà, se si accentuerà (e in quel caso potremo parlare di deglobalizzazione) o se è solo una fase temporanea.

Guardando la storia del capitalismo globale degli ultimi due secoli è possibile notare delle oscillazioni nei processi di globalizzazione e di integrazione globale, che è possibile misurare tramite gli scambi commerciali, gli investimenti, la mobilità di capitale e di persone; alle ondate di globalizzazione sono seguiti poi dei reflussi di deglobalizzazione. L’impressione è che siamo in una fase storica di reflusso anche se tutte le opzioni restano aperte. Il secondo aspetto è che la globalizzazione è oggi delegittimata fortemente dagli americani, c’è l’idea diffusa e fortemente condivisa negli Stati Uniti (sia a destra che a sinistra) che i processi di integrazione globale dell’ultimo mezzo secolo abbiano nuociuto loro, eroso le loro capacità industriali, devastato parte del Paese oltre all’ idea che c’è stata una deindustrializzazione e sono venuti meno posti di lavoro. È una lettura sempliciona perché in realtà altri pezzi di America hanno cavalcato e sfruttato la globalizzazione, ci sono città come Phoenix che sono esplose negli ultimi trent’anni grazie anche ad essa.

Oggi credo che l’amministrazione americana torni alla questione della competizione con la Cina e che voglia in parte deglobalizzare e soprattutto togliere influenza alla Cina. Le catene di valore transnazionali, le supply chains, sono i processi di produzione che connettono tutto il mondo attraverso i tanti stadi di lavorazione, dalle materie prime al trasporto e alla distribuzione. Dentro queste catene di valore la Cina continua a occupare un ruolo centrale, l’amministrazione Trump e, in una certa misura, anche quella Biden, ritiene che bisogna intervenire su queste catene globali per riorientarle e portare stadi della produzione negli Stati Uniti per sottrarli alla Cina, così che il Paese asiatico abbia meno potere di condizionamento e capacità di influenzare le supply chains globali. È praticabile tutto ciò? Boh, l’impressione è che non lo sia tant’è che andando a vedere i deficit esterni degli Stati Uniti, quello con la Cina dal 2018 a oggi si è ridotto, anche se non molto, e contemporaneamente però è esploso quello col Vietnam ed è ulteriormente aumentato quello col Messico. Fondamentalmente queste supply chains non sono tornate negli Stati Uniti ma sono state riorientate su altre direttrici.

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