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COP29: intesa raggiunta, ma per i Paesi più poveri è una beffa

Dopo due lunghissime settimane di trattative a Baku, nel cuore della notte, quasi 200 Paesi hanno trovato l’accordo sui nuovi impegni condivisi a livello internazionale per contrastare il cambiamento climatico.

COP29: intesa raggiunta, ma per i Paesi più poveri è una beffa
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25 Novembre 2024 - 09.49


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Erano passate da poco le due e trenta del mattino quando il martelletto del presidente della COP29, Mukthar Babayev, batte il colpo definitivo. La Conferenza era finita, e quasi 200 Paesi, a quel punto, hanno trovato l’accordo sulla partita più difficile: c’è un nuovo obiettivo per la finanza climatica. Arrivano gli applausi ma c’è amarezza tra i Paesi del sud del mondo e non solo.

La COP è la più importante conferenza annuale delle Nazioni Unite per il contrasto al cambiamento climatico (quella di Baku è stata la ventinovesima) e l’accordo siglato è stato contestato duramente da buona parte dei paesi partecipanti, soprattutto quelli più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, perché ritenuto troppo poco ambizioso o addirittura fatto in “malafede”.

Come previsto fin dall’inizio dal paese ospite di quest’anno, l’Azerbaijan, il patto ha riguardato soprattutto il delicato tema della finanza climatica, cioè gli aiuti economici con cui i paesi più ricchi e storicamente responsabili per le emissioni di gas serra, quelli che causano il riscaldamento globale, si sono impegnati a sostenere quelli meno sviluppati dal punto di vista economico.

L’accordo siglato prevede circa 1.300 miliardi di dollari (circa 1.250 miliardi di euro) di aiuti all’anno, ma di questi soltanto 300 miliardi arriveranno nella forma che è più necessaria, cioè come contributi e prestiti a basso interesse da parte dei paesi sviluppati. E qui arriva la beffa per i paesi più poveri e anche meno inquinanti del mondo.

Infatti, tutti gli altri soldi dovranno essere raccolti in maniere più incerte e parzialmente ancora da decidere, per esempio da finanziatori privati, aziende, tasse sull’aviazione e altro: tutti fondi che di fatto devono essere ancora stanziati e definiti.

A testimonianza del malcontento e del disappunto di molteplici stati partecipanti alla Conferenza, ci sono eventi come quelli avvenuti nel pomeriggio di sabato, mentre erano in corso riunioni piuttosto frenetiche, che hanno visto protagonisti due gruppi di nazioni particolarmente vulnerabili (l’Alleanza dei piccoli stati insulari e i Paesi meno sviluppati) che hanno abbandonato i negoziati per protesta, facendo temere che la COP29 si sarebbe conclusa senza un accordo (era successo soltanto una volta in precedenza, alla COP6 del 2000).

Tuttavia, alla fine si è arrivati ad un punto d’incontro, ma l’offerta formulata è stata complessivamente ritenuta insufficiente e deludente rispetto agli obiettivi prefissati della conferenza. A tal proposito, Chandni Raina, la delegata dell’India, ha detto che “il documento conclusivo non è nient’altro che un’illusione ottica” e che il suo paese non può sostenerlo.

“Speravo in un risultato più ambizioso”, ha commentato invece il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, che ha aggiunto: “L’accordo fornisce una base su cui costruire”. Inoltre, per il numero uno della Convenzione sul Clima Simon Stiell si tratta di “una polizza di assicurazione per l’umanità”. Ancora più dure sono state le parole del Can, la principale rete di Ong, che ha parla addirittura di “tradimento”, così come quelle del ministro dello Zambia che si è dichiarato “estremamente deluso dal risultato”.

Quest’edizione della COP29 si era aperta due settimane fa tra un certo pessimismo, principalmente per due ragioni: la prima riguarda il fatto che il paese ospitante, l’Azerbaijan, è uno dei principali produttori ed esportatori di petrolio e gas naturale al mondo (il 90 per cento delle esportazioni azere è composto da idrocarburi), la seconda ha a che fare con l’apertura della Conferenza che è avvenuta pochi giorni dopo le elezioni americane negli Stati Uniti che hanno visto Trump trionfare su Kamala Harris.

Proprio il tycoon a stelle e strisce ha promesso che gli Stati Uniti lasceranno l’accordo di Parigi, il più importante accordo sulla limitazione delle emissioni, e fatto capire che la sua amministrazione sarà con ogni probabilità meno attiva nelle attività di cooperazione internazionale di contrasto al cambiamento climatico. Anche per questo la delegazione americana, composta ancora da membri dell’amministrazione del presidente uscente Biden, è rimasta molto defilata a Baku.

Alla COP29 sono stati, come previsto, molto presenti (e molto attivi) gli interessi dei paesi esportatori di idrocarburi. L’Arabia Saudita, per esempio, ha tentato più volte di eliminare dal documento finale il passaggio che parla di «allontanarsi gradualmente dai combustibili fossili nei sistemi energetici», il cui inserimento era stato uno dei principali successi della COP28 dell’anno scorso. Il Guardian, inoltre, sostenuto che i delegati sauditi abbiano tentato a un certo punto di modificare di nascosto un importante documento negoziale.

Come già avvenuto alle Conferenze precedenti ci sono state anche polemiche e controversie a proposito di quali paesi dovrebbero fornire gli aiuti economici per i paesi più poveri. Per esempio la Cina, che oggi è il primo paese del mondo per emissioni di gas serra nell’atmosfera (in termini assoluti, ma non in termini di emissioni per persona), secondo le classificazioni dell’ONU viene considerata ancora un paese in via di sviluppo, e questo fa sì che i suoi contributi siano volontari e non obbligatori come quelli dei paesi considerati sviluppati.

Il caso della Cina, considerato come uno stato in via di sviluppo al pari di nazioni come l’Algeria, il Guatemala e l’Honduras, fa sorridere da una parte ma indignarsi dall’altra, vista l’evidente differenza da un punto di vista economico (e non solo) che c’è fra i paesi in questione.

Infine, oltre al nuovo obiettivo di finanza, in questa COP29 si è riusciti ad approvare, dopo nove anni di trattative, le regole del mercato dei crediti di carbonio. Un passaggio importante. Ma non è stato fatto alcun passo avanti sull’abbandono delle fonti fossili e questo è un risultato allarmante in chiusura di questo anno (che sarà il più caldo mai registrato) e in vista di quello venturo, che vedrà i dieci anni dall’Accordo di Parigi, stipulato il 12 dicembre del 2015.

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