di Giada Zona
Voce della società, talvolta antagonista e ribelle, ed espressione intima e creativa, la scena musicale è oggi al centro di enormi cambiamenti. Con nuovi strumenti e nuove richieste dal mercato, l’industria musicale vanta una lunga storia che oggi deve affrontare sfide tra cui –o forse soprattutto– il capitalismo digitale.
I brani musicali, soprattutto pop, sono diventati sempre più corti rischiando così di diventare merce, piegate alle domande del mercato, prendendo parte ad un capitalismo che, sebbene invisibile, è dietro le applicazioni e piattaforme che usiamo tutti i giorni. E sì, anche quelle musicali.
Lo sa bene Spotify –giusto per fare un esempio– dove dobbiamo ascoltare almeno 30 secondi di un brano per far guadagnare l’artista. Il risultato è chiaro: inizio coinvolgente, curioso e accattivante, a tal punto da ascoltare almeno quei primi 30 secondi. E ne è ben consapevole TikTok, dove ascoltiamo solo quindici secondi di una canzone –tempo in linea con la soglia di attenzione di 8 secondi– spesso diventati sufficienti per trasferirci su un’altra piattaforma dove ascolteremo quel brano per poi, magari, rimanerne delusi perché si rivela completamente diverso.
Ma se da un lato si diffonde il capitalismo digitale, dall’altro una parte del coro, attiva e consapevole che i guadagni di piattaforme come Spotify arricchiscono prima di tutto le stesse piattaforme e non gli artisti, ha dato vita a Bandcamp. Nato nel 2007, Bandcamp è un servizio musicale fondato in California che si pone l’obiettivo di dare maggiori profitti agli artisti che, all’interno della stessa piattaforma, instaurano un rapporto con i loro fan. Un rapporto che può andare ben oltre la musica, come avvenne nel 2020 con iniziative che hanno sostenuto il movimento “Black Lives Matter”.
Se le piattaforme pensano ad arricchire se stesse, non è detto che gli artisti accettino queste condizioni; ne è un esempio Bandcamp ma anche la vicenda accaduta il mese scorso, quando il cofondatore di Spotify, Daniel Ek, ha finanziato con 600 milioni l’industria militare, con la conseguente risposta di artisti che hanno tolto i loro brani dalla piattaforma. Una risposta dal basso c’è stata e magari anche in futuro può esserci; qualcuno ha attuato quelle che Michel De Certeau, antropologo francese, chiamava “tattiche”, atti di resistenza praticati da individui più svantaggiati rispetto a coloro che, come Daniel Ek, detengono il potere.
Se oggi c’è il digitale, con le piattaforme sempre più discusse e influenti, ieri c’era l’analogico, ritornato in piena forma nella società odierna. Prima con il 78 giri e dopo la seconda guerra mondiale con il 45 giri, i brani dovevano rispettare i limiti temporali imposti dal vinile; poi arrivarono gli LP a 33 giri, dove l’artista poteva registrare anche un album, e anche musicassette e CD, dunque nuove tecnologie che, rispetto ai primi supporti, garantivano una maggiore durata dei testi.
Tra i più famosi ricordiamo “La Locomotiva” di Guccini con una durata di ben 8 minuti e 17 secondi, “Hey Jude” dei Beatles 7:11 minuti, “Another Brick In The Wall” dei Pink Floyd 8:27 minuti. Giusto qualche capolavoro. Anche se minor durata non vuol dire minor significato e profondità –basti pensare a “Blowin’ In The Wind” di Bob Dylan – è evidente a tutti, piattaforme e artisti in primis, che le canzoni, soprattutto pop, sono diventate sempre più corte.
Notevolmente cambiato nell’epoca digitale, il mondo musicale ha fatto i conti con le innovazioni che doveva, deve e dovrà affrontare, mettendo al centro la vena artistica –libera, creativa e a volte bizzarra– che da sempre accompagna i musicisti, da quelli che riempiono gli stadi a quelli di nicchia. E gli artisti sono oggi anche utenti con nuove responsabilità, come quella di decidere se conformarsi alle regole delle piattaforme o sottrarsi, se aggirarle o crearne di nuove.