di Silvia Marchi
Ci sono spettacoli teatrali che non nascono solo per intrattenere, ma anche per riportare al centro del dibattito pubblico temi che troppo spesso ignoriamo o diamo per scontato. L’angelo del focolare, della regista Emma Dante, appartiene a questa categoria: un lavoro che trasforma il palcoscenico in uno spazio di riflessione e assunzione di responsabilità.
Presentato l’11 novembre scorso al Teatro Grassi di Milano, la regista é affiancata da grandi interpreti che hanno trasmesso al pubblico un’urgenza sociale che non concede scuse. Da quel palco, infatti, è partito un avvertimento generale che ha trasformato la messa in scena nel ritratto feroce di una donna a cui non è concesso nemmeno il lusso di morire.
Un coltello da cucina, delle forbici e un ferro da stiro. Tutti oggetti quotidiani che Dante ha trasformato davanti agli occhi del pubblico, facendogli perdere la loro innocua funzione per assumere contorni grotteschi. È proprio da questa metamorfosi disturbante che é partito il fil Rouge della narrazione, con un’arte teatrale che si é fatta carico di un problema che negli ultimi anni ha avuto più voce ma la stessa ostinata indifferenza: il femminicidio.
La compagnia teatrale ha danzato tra il simbolismo e l’atrocità; ogni scelta stilistica porta con sé una moltitudine di messaggi che arrivano direttamente allo spettatore, senza ammorbidire né sottovalutare il femminicidio.
Il nome dell’opera prende spunto dalla figura della donna angelo: madre, moglie, casalinga. Una figura paradisiaca destinata a un ruolo per l’eternità. Il cast, composto da soli quattro attori, ha un’ulteriore peculiarità: nessuno di loro ha un nome, sono solo funzioni. Solo la moglie, il marito, la suocera e il figlio; una scelta che ha permesso di mostrare al meglio l’inequivocabile dislivello di potere radicato nella nostra cultura.
L’esibizione si é sviluppata in risposta ad una domanda: quante volte, prima dell’omicidio, una donna muore?
Le giornate della moglie seguono una linea distopica: una serie di faccende domestiche adornate da una violenza evidente ma ignorata. Ogni giorno viene trovata morta, ma ogni singola volta si rialza per ricominciare la sua routine. E come le notizie che leggiamo quotidianamente, la storia si mostra cruda, senza il minimo intento di addolcire la realtà, rendendo impossibile allo spettatore voltare lo sguardo altrove. Ci si ritrova costretti a guardare dentro una casa dove, all’apparenza, “va tutto bene”.
La regista, con maestria, ha di fatti rappresentato la vita di innumerevoli donne spaventate: alcune già morte, altre consapevoli di essere bloccate in una giornata infinita come la protagonista; tutte, però, accomunate dalla violenza quotidiana. E, come nella realtà, non ci regala una soluzione, non consola e non mostra carezze, ma ci fa comprendere come il femminicidio non sia un atto improvviso, bensì un’abitudine che cresce nel silenzio e nell’indifferenza, in un luogo che chiamiamo “casa” ma che non richiama alcun senso di sicurezza, spesso dalle stesse mani appartenenti agli uomini che affermano di amarle.
Questo spettacolo teatrale è nato dal bisogno di spiegare ciò che le donne temono, che non riescono a raccontare e denunciare; perché la violenza non risiede solo negli angoli bui delle strade, ma si manifesta nei salotti, nelle cucine, dove si pronuncia la frase “i panni sporchi non si lavano in pubblico”.
Un disturbo al quotidiano silenzio e alla fredda indifferenza quello che questo spettacolo ha saputo scatenare, che dipende, però, da quanto siamo disposti a guardare prima di girare lo sguardo altrove quando una donna muore.
Argomenti: femminicidio