Passano gli anni ma Bohemian Rhapsody resta un capolavoro intramontabile, riscoperto da prospettive differenti da ogni generazione. Simbolo del rock fluido e multiforme dei Queen, di un periodo e un’estetica cristallizzata nel tempo e venerata in tutto il mondo.
Il brano, rilanciato nel 2018 dall’omonimo film biografico diretto da Bryan Singer, continua ancora a macinare numeri da record sulle piattaforme mezzo secolo dopo la sua uscita. Ma non sono le visualizzazioni a consacrarlo: “Bohemian Rhapsody” rimane uno dei pezzi più celebrati e studiati di sempre perché non ha mai rivelato del tutto se stesso. Il testo, criptico e oscuro, sarebbe metafora di una confessione secondo l’interpretazione della biografa Lesley-Ann Jones: un omicidio a simboleggiare il coming out di Freddy Mercury (e la relativa morte della sua maschera obbediente alle aspettative di una società profondamente omofoba e la rinascita di un Mercury autentico). Del significato del testo non è però mai stata data una spiegazione ufficiale.
Dietro il mosaico lirico, però, ci sono riferimenti puntauli: Galileo Galilei, omaggio agli studi di astrofisica del chitarrista Brian May, Scaramouche, personaggio della commedia dell’arte, il “Figaro” rossiniano, l’invocazione araba “Bismillah” (“in nome di Dio”), in un richiamo alle origini di Mercury, nato a Zanzibar come Farrokh Bulsara fino ad arrivare a Belzebù.
“Bohemian Rhapsody” è un ibrido, una mix musicale senza precedenti che in 6 minuti alterna una ballad pianistica, l’opera, i toni duri dell’hard rock con quelli più delicati e introspettivi, tutto per giungere a un finale malinconico che ad un primo ascolto spiazza l’ascoltatore. Bohemian Rhapsody è un esperimento che ha raggiunto una forma perfetta. Un monumento impossibile da incasellare, tanto complesso da terrorizzare le case discografiche che cercarono di impedirne la pubblicazione, convinte che fosse troppo rischioso per diventare un singolo. Menomale che i Queen non si arresero e fecero di tutto per trasmetterlo alla radio, sfidando e vincendo contro l’industria musicale.
A renderlo ancora più straordinario è però la realizzazione tecnica: quasi 200 tracce sovraincise a mano, in un’epoca senza computer né multitraccia digitale. Ogni voce, ogni coro, ogni parte strumentale fu registrata, tagliata e incollata fisicamente su nastro. Le voci stratificate, i sovracuti di Roger Taylor, le armonizzazioni multiple e l’assolo di chitarra di Brian May hanno reso la canzone una vera e propria opera d’arte.
Oggi, a 50 anni di distanza, “Bohemian Rhapsody” resta l’esempio perfetto di cosa succede quando un artista decide di non obbedire al mercato, di non semplificare per piacere ma di osare per diventare veramente immortale.