di Raffaella Gallucci
Con la terza stagione di Monster, dopo il successo del caso di Jeffrey Dahmer e dei fratelli Menendez, Ryan Murphy sembra aver scelto la strada più discutibile dell’intrattenimento true crime: la glorificazione del carnefice. La storia del macellaio di Plainfield non è solo un racconto sbilanciato, è un ribaltamento etico che restituisce dignità narrativa al serial killer e briciole di attenzione a chi è stato massacrato, con l’intento di impressionare e non di ragionare sulle atrocità.
La serie ricostruisce la figura del macellaio di Plainfield come un uomo “spezzato”, un disadattato, vittima della madre e dell’ambiente. La follia diventa una narrativa comoda, quasi un alibi psicologico. Lo spettatore viene invitato a empatizzare con lui: la messa in scena ne umanizza i traumi, ne giustifica i gesti, ne racconta il lato fragile. Nel frattempo, le vittime scompaiono. Donne reali, con nomi e storie, sono ridotte a materiale narrativo, sagome utili a definire il protagonista. La loro memoria non viene rispettata: non c’è spazio per la loro voce, per il loro vissuto, per l’impatto delle azioni di Gein sulla comunità. Sono comparse, carne da macello funzionale alla spettacolarizzazione del mostro.
A peggiorare l’operazione, la serie indulge nel mito di Gein come “padre dell’horror moderno”, intrecciando la sua figura con Psycho, Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti. Se nel cinema la figura del mostro può avere una funzione simbolica — raccontare i marciumi della società, esorcizzare paure collettive — qui si trasforma in pornografia del crimine. Non basta dire che Gein ha influenzato l’horror: la serie amplifica il fascino per il carnefice, aggiungendo altri serial killer come Richard Speck in maniera grottesca e superficiale, come se l’orrore reale fosse un intrattenimento da mostrare senza alcuna riflessione. Il risultato è disgustoso: il focus si sposta dall’orrore reale al fascino morboso del mostro, e il messaggio etico va completamente perduto.
Sul piano tecnico, regia e montaggio sono ineccepibili. L’impatto visivo è curato, le inquadrature studiate, la fotografia efficace. Ma l’uso continuo di salti temporali avanti e indietro – forse concepito per rendere “affascinante” la struttura- disorienta e frammenta la fruizione. Quindi, invece di arricchire il racconto, lo complica inutilmente, coprendo con artificio quello che una narrazione lineare avrebbe potuto restituire con più chiarezza e verità. Una struttura lineare avrebbe dato più spazio alla storia principale, invece che trasformare la tragedia in un puzzle psicologista centrato sul carnefice.
Monster – La storia di Ed Gein non sbaglia solo nel tono: sbaglia prospettiva. Non denuncia, non ricostruisce, non elabora. Mette in scena l’uomo dietro il mostro, ignora le persone distrutte dal mostro stesso e invita lo spettatore a empatizzare con un assassino reale. Quando la memoria delle vittime viene sacrificata per costruire fascino verso il carnefice, non si sta raccontando la realtà: la si sta tradendo.