di Vittoria Calabrese
Vi è mai capitato che un bambino venisse da voi dicendovi di aver avuto “un’idea geniale” mentre vi mostra con orgoglio un foglio dipinto di nero mentre vi espone l’innovativa scelta artistica? A me sì, e, scegliendo la via dell’onestà, ho dovuto dirgli che qualcuno aveva anticipato la sua idea di centodieci anni.
Quel qualcuno è stato Kazimir Severinovič Malevič, il quale grazie ad un quadrato nero, ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’Arte.
Facciamo un passo indietro: nel 1915, complici la pubblicazione di articoli, l’organizzazione di alcune mostre, il collezionismo – come nel caso di Sergei Shchukin – e il soggiorno europeo di alcuni artisti russi, le avanguardie europee erano ben consolidate nell’immaginario artistico della Russia degli zar. Tutti questi fattori avevano contribuito all’intersecarsi delle culture e al diffondersi, ad esempio, del futurismo e del cubismo.
Nello specifico, queste ultime due avanguardie avevano scomposto la rappresentazione della realtà cercando di introdurre la dimensione temporale all’interno dello spazio immobile di una superficie; Malevič, dal canto suo, con la fondazione del suprematismo, varca un’altra soglia, destinata a mettere un punto fermo alla mimesis e ad andare a capo per sempre.
Le forme del suprematismo diventarono concrete nel 1915, quando l’artista partecipò all’esposizione 0.10 tenutasi a San Pietroburgo. Quadrato nero era tra le opere esposte e, nell’insieme di pure forme che riempivano la stanza, il dipinto occupava un posto molto particolare: quello delle icone sacre che, in Russia, sono poste in alto, agli angoli delle stanze, quasi a sfiorare il soffitto.
L’opera è tanto minimale quanto carica di significati legati a doppio filo alle tradizioni del luogo, alla sua filosofia e alla religione.
L’intento di Quadrato nero e, in generale, del suprematismo, inizia a dipanarsi se si legge cosa scrive l’artista nell’ultimo manifesto del 1923, dove tutto è ridotto alla sua forma zero e dove alcuni punti recitano: “La scienza, l’arte non hanno limiti poiché quel che è oggetto di conoscenza è illimitato, innumerabile e l’innumerabilità e l’illimitatezza sono uguali a zero”.
E ancora: “Se la religione ha conosciuto Dio, ha avuto conoscenza dello zero”; Le forme sono espressione di una “riconosciuta forma dell’azione, della perfezione utilitaristica del mondo concreto che avanza”. La contrapposizione a tutte le forme artistiche esistite fino al quel momento porta alla forma zero dell’arte, “il nuovo realismo pittorico, verso la creazione non oggettiva” dunque, la forma pura.
Se provassimo a immergerci in quel luogo e in quello spazio, all’apertura della mostra 0.10, potremmo immaginare una lieve tensione all’interno di quella stanza, i nostri occhi non vedrebbero niente di già visto fino a quel momento all’interno di una cornice. Le pupille non riuscirebbero a intercettare nulla di conosciuto, nulla di simile alla visione dell’arte albertiana, nessuna finestra spalancata sul mondo ma solo forme. Nel caso in cui, poi, avessimo bisogno di conforto rivolgendo le nostre preghiere alla Madonna e andassimo a cercarla proprio lì dov’è sempre stata – nell’angolo in alto della stanza – non la troveremmo e sembrerebbe essere fuggita insieme al suo fondo oro per fare spazio al vuoto, all’inesistenza, allo zero.
Nel Quadrato nero restano una forma e un colore, o forse resta anche una parte di noi, che cerca di riempire quel vuoto immenso, sacro e intriso di misticismo. Malevič sintetizza le forme ma apre anche uno spazio infinito, una nuova pagina dell’arte in attesa di essere dipinta e che probabilmente funge da terreno fertile per gli esiti attuali. Il nero, rivoluzionario per Malevič, diventa, a più di cento anni di distanza, marchio per Anish Kapoor che con il suo Vantablack gioca con le profondità e ci mette in diretto rapporto con il vuoto come nell’istallazione Void Pavillon VII che in occasione della mostra “Untrue unreal” ha occupato il cortile di Palazzo Strozzi.