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'Vermiglio': il peso di chi resta, il silenzio di chi parte

Tra neve, freddo, vino e paesaggi mozzafiato, il secondo film diretto da Maura Delpero dimostra come anche un’opera intima e all’apparenza semplice possa suscitare profonde emozioni e riflessioni.

'Vermiglio': il peso di chi resta, il silenzio di chi parte
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16 Gennaio 2025 - 15.32


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Di Raffaella Gallucci

Siamo alla fine della Seconda Guerra mondiale e ci troviamo a Vermiglio, un piccolo paese di montagna dell’Alto Trentino, nella Val di Sole, storicamente zona di frontiera. In questo microcosmo la vita scorre lenta e la guerra, di cui se ne parla in continuazione pur vivendola con distacco, appare lontana anche se aleggia sullo spirito degli abitanti. Nessuno tra loro ha vissuto l’orrenda esperienza in prima persona, tranne figli e nipoti. Loro si che la conoscono e alcun i ritornano altri no.

L’unico nel paese che s’informa dell’orribile esperienza che ha luogo non molto lontano dal paese è un uomo colto, mimetizzato tra i contadini, il maestro Graziadei, padre di famiglia di ben sette figli e di altri due neonati morti. Lui decide le sorti dei figli con polso duro, mentre ascolta i suoi amati vinili che gli portano dalla città e, con Vivaldi in sottofondo mentre fuma una sigaretta, corregge i compiti dei suoi alunni, decretando il destino di ognuno di loro.

Nella famiglia Graziadei il destino di ciascuno è già scritto, che lo si accetti o meno: Lucia, la primogenita, con il suo destino legato a Pietro, il siciliano che ha disertato la guerra ponendo fine alla sua innocenza e purezza. Ada che combatte tra la sua devozione alla religione e la sua pulsione sessuale, autoinfliggendosi punizioni per il suo comportamento peccaminoso. Flavia con il suo personale senso di colpa nei riguardi delle sorelle poiché l’unica prescelta dal capofamiglia a continuare gli studi perché “lei eccelle”, le altre sorelle no.

Tra neve, freddo, vino e paesaggi mozzafiato, Vermiglio, secondo film diretto da Maura Delpero, dimostra come anche un’opera intima e all’apparenza semplice possa suscitare profonde emozioni e riflessioni. La cineasta italiana porta in pellicola il racconto della guerra affrontandola da un’altra prospettiva, ovvero quella di chi resta e di chi fugge. Lo spettatore è portato ad immedesimarsi con delicatezza nell’intimità di un’anonima famiglia.

La freddezza e la paura con il quale il maestro Cesare Graziadei, interpretato da un magistrale Tommaso Ragno, guarda la moglie partorire per l’ennesima volta un figlio che non sa se sopravvivrà o meno è l’emblema della società dell’epoca: la paura per il futuro ma anche speranza per una serenità da tanto attesa.

Amore, morte, paura, desiderio e religione sono i temi che i personaggi del piccolo paese di montagna affrontano, direttamente o indirettamente, nella quotidianità. Questi argomenti emergono nei colloqui tra figli, proprio mentre si trovano nei loro letti, prima di dormire, e diventano simbolo di intimità e come un invito a condividere il calore e la rassicurazione che solo la famiglia può offrire.

La regia di Maura Delpero si distingue per autenticità e uno stile già riconoscibile. Ritroviamo un’estetica naturalista che richiama quella di un’altra grande regista italiana, Alice Rohrwacher (non a caso, Tommaso Ragno, uno dei protagonisti di Vermiglio, ha lavorato con entrambe le cineaste). L’eleganza della regia e della messa in scena emerge chiaramente con le numerose inquadrature che, pur magiche, trasmettono un freddo distacco. La cineasta con una delicatezza che la contraddistingue, dipinge una realtà dove le emozioni più intime si intrecciano con il destino e dove ogni silenzio pesa come una scelta.

In un paesaggio che pare congelato nel tempo, il film esplora la tensione tra chi resta e chi parte, tra il desiderio di speranza e la paura del futuro. In questo paese lontano da tutto, fermo nel tempo e nello spazio, il film ci ricorda che la vera forza della vita risiede nella fragilità dei legami umani, capaci di resistere anche all’orrore, alla distanza e al freddo.

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