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Nato due volte: il premio Oscar Dante Ferretti si mette a nudo in un’autobiografia

Non si tratta del consueto racconto edulcorato, infarcito di memorie melense, limate dalle asperità del vivere, ma di un'affasciante cavalcata proiettata nel futuro

Nato due volte: il premio Oscar Dante Ferretti si mette a nudo in un’autobiografia
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

14 Febbraio 2023 - 17.12 Globalist.it


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“Dantino, che hai sognato stanotte?” gli chiedeva Federico Fellini quando lo incrociava per i viali di Cinecittà. “Ci incontrammo… e spiccammo il volo” ha raccontato Terry Gilliam, ricordando la loro collaborazione. Sono due della schiera di grandi registi ai quali lo scenografo e costumista Dante Ferretti ha prestato il suo genio creativo, che lo ha reso l’artista italiano più premiato nella storia dei Nastri d’Argento nonché vincitore di tre premi Oscar, sei se consideriamo quelli conseguiti con la moglie Francesca Lo Schiavo, set decorator di notevole talento, “donna della sua vita, compagna di lavoro, collaboratrice, socia, madre”: la coppia italiana più premiata nel mondo. Nato a Macerata nel 1943, con una vicenda personale e lavorativa a dir poco ragguardevole, Ferretti ha deciso di raccontare la propria vita in un’autobiografia scritta a quattro mani con David Miliozzi, Immaginare prima. Le mie due nascite, il cinema, gli Oscar, pubblicata dall’editore Jimenez (pp. 270, € 22).

Nella prima delle due parti che costituiscono il volume (“Primo tempo: Dante racconta Dante”) Ferretti apre il racconto con un inizio folgorante: “Come si dice in italiano ‘botta di culo’? Mi hanno trovato sotto le macerie, tra polvere, detriti e mattoni spaccati. Tutti mi davano per morto, ormai. Era un lunedì, la mattina del 3 Aprile 1944”. A tredici mesi di vita, dunque, Dante nasce una seconda volta, miracolosamente sopravvissuto a un bombardamento delle Fortezze volanti americane che martellavano l’Italia durante la lunga lotta di liberazione dal nazifascismo, nella Seconda guerra mondiale. Quelle incursioni aeree, quelle distruzioni, quella “sottile atmosfera apocalittica” riaffioreranno anni dopo nei bozzetti del film del suo caro amico Martin Scorsese, The Aviator, che valse al nostro il primo Oscar. Da un’esperienza di terrore e di tenebra, di solitudine e di soffocamento, da una più che prematura conoscenza della morte è dunque sgorgata la vita – e che vita.

Basterebbe tale incipit a spingere un lettore a tuffarsi in queste pagine, insaporite dall’arguta autoironia con cui l’autore si mette a nudo, senza infingimenti, senza la retorica che non di rado aggrava le autobiografie. Non si tratta infatti del consueto racconto edulcorato, infarcito di memorie melense, limate dalle asperità del vivere, tranciate e date in pasto ad un pubblico affamato di aneddoti: i ricordi sono intessuti nell’arazzo del tempo, legati da emozioni, sensazioni, percorsi mentali ed artistici. Eccoci così proiettati nella Macerata del lungo dopoguerra, in una provincia italiana da tempo scomparsa, con le sue tradizioni, i ritmi lenti, le malinconie, i desideri di fuga, un luogo dell’anima oltre che della storia, dove sempre Ferretti è in qualche modo tornato, con “il timore di tradire la memoria”, dai viaggi che per lavoro lo hanno portato in giro per il mondo. Un rapporto con le origini contraddittorio, un corpo a corpo con un passato che riaffiora in modi non sempre piacevoli, magari come spunti originali per i suoi splendidi bozzetti, raccolti in suggestive foto nel libro che impreziosiscono il racconto con la loro peculiare voce visiva, dando contezza del genio di Ferretti anche ad occhi profani.

Dunque, un trauma e le esperienze fondamentali che ci segnano: la famiglia, fucina in cui forgiare il proprio carattere, la propria personalità, straordinario punto di forza nel momento del distacco; l’infanzia con i suoi sogni; l’adolescenza con i suoi tremori; gli amici, i primi amori; il sudato rapporto con la scuola; il bruciante incontro con le immagini in movimento viste al “Cinema Italia”; i presagi d’un futuro temuto eppure desideratissimo: da questo solido nucleo Ferretti ricostruisce il proprio percorso esistenziale, con una voce che pare quella di un amico che rammemora davanti ad un focolare. Una voce agevole nel dire, che pure appare quasi strappata a forza, poiché dichiara: “Non amo parlare”, “preferisco ragionare per immagini”, “il disegno è la mia vita, lo è sempre stato”.

Tuttavia, il racconto procede fluido, anche con l’uso del dialogo a ravvivare il racconto: l’approdo a Roma per realizzare il “desiderio irrefrenabile di creare luoghi dove far vivere storie”, poiché “il cinema è sempre stato il mio luogo dell’anima”, “il senso profondo della mia esistenza, il mio unico progetto di vita”. E anche, come gli disse un giorno Martin Scorsese mentre passeggiavano a Cinecittà in mezzo alle scenografie di Gangs of New York, perché “il cinema rende possibile l’impossibile”. Poi l’incontro con il suo mentore, Pier Paolo Pasolini, del quale firmerà le scenografie di cinque film, quindi con l’altro personaggio che ha segnato in profondità la sua esperienza di uomo e di artista, quel Federico Fellini del quale curerà l’allestimento scenico degli ultimi cinque lavori, i rapporti con gli attori, con i registi tra i più grandi che abbiamo avuto: Petri, Cavani, Scola, Comencini, Zeffirelli, Ferreri, Risi, Salce, Bellocchio, Citti, Brusati con i loro colleghi stranieri, Scorsese, Annaud, Branagh, De Palma, Gilliam, Minghella, Jordan ed altri. Ma trovano posto anche i momenti passati con personaggi della storia e della spiritualità come il Dalai Lama, il quale, seduto ad un tavolo, ha comunicato con lui nel suo stesso linguaggio, disegnando la propria casa dell’infanzia.

Nel “Secondo tempo: raccontare un Maestro”, Ferretti cede la voce al suo conterraneo David Miliozzi, scrittore e critico d’arte che ne ha raccolto le memorie, il quale, in una sorta di controcanto, tesse in maniera più sistematica il racconto della sua vita, riempiendo buchi e dando coerenza strutturale, anche inquadrando criticamente l’opera del Maestro, la sua estetica del meraviglioso, le sue esperienze nel teatro (come lo strepitoso successo della Traviata allestita nel 1990 con le sue scenografie alla Scala di Milano, per la regia di Liliana Cavani, il primo di una fecondissima collaborazione tra i due, che già avevano incrociato i loro talenti nel cinema), fino alle sue regie, costellate da calorose accoglienze, dando però sempre rilievo all’aspetto umano, alle relazioni personali, mettendo in luce “la profonda autenticità”, “la complicità silenziosa e ironica” che lega Ferretti ai suoi collaboratori. Pare di ravvedere una lotta, dietro questo racconto, un tentativo fatalmente destinato al fallimento di riversare in un libro l’esistenza troppo densa di eventi, di incontri, di emozioni, di creazioni, di un uomo che “ha sempre preferito stare dietro le quinte”: uno “scenografo per natura, che non ama stare sulla scena, semmai ama costruirla”, una persona che, da come appare in queste pagine, ha saputo conservare l’umiltà dei grandi.Nella primavera del 2022 lo scenografo di Macerata ha ritirato nella città natale le pagelle da studente, conservate per sessant’anni nella cassaforte della scuola. Nell’emozionante incontro coi ragazzi del liceo artistico, che gli hanno dedicato un progetto triennale dall’emblematico titolo “Dante Ferretti – La fabbrica dei sogni”, il grande artista ha lanciato loro un messaggio: “Ragazzi, inseguite i vostri sogni!” Questa originale autobiografia non è dunque solo un fascinoso salto nel passato: è un’affascinante cavalcata proiettata nel futuro, che opportunamente si chiude non con le parole, ma con un “finale scenografico”, con un bozzetto disegnato per il film Prova d’orchestra di Fellini: un’enorme sfera che apre uno squarcio nelle mura, affrancando quei leggendari orchestrali e noi spettatori da quel qualcosa – qualunque esso sia – che vuol tenerci prigionieri, indicando il varco verso la libertà, raggiunta con la realizzazione di sé malgrado gli incubi che ci portiamo dentro, e con la creazione di un mondo migliore.

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