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Passione ‘900: al Castello di Conversano la collezione Giuliani sulla pittura che portò all'astrattismo

Nella dimora degli Acquaviva d’Aragona in mostra 46 delle più importanti firme del xx secolo, da Messina a Isgrò, da Balla a De Chirico e Sironi.

Passione ‘900: al Castello di Conversano la collezione Giuliani sulla pittura che portò all'astrattismo
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16 Aprile 2022 - 14.12


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di Angela Rubino

Il 4 novembre 1899 fu pubblicata la prima edizione in tedesco della Traumdeutung, “L’interpretazione dei sogni” di Freud. L’editore volle, però, scrivere sul frontespizio una data differente: 1900. Fu una lungimirante intuizione perché l’opera era destinata ad innescare la rivoluzione culturale del Secolo breve. Da un punto di vista epistemiologico, l’introduzione del concetto di inconscio ebbe un effetto dirompente.

Questo radicale mutamento di prospettiva funzionò anche nelle arti figurative, che iniziarono ad esplorare la dimensione nuova dell’interiorità.

Caso emblematico è quello del disegnatore pratese Andrea Marinelli. Anche per questo i suoi ritratti aprono “Passione ‘900. La collezione Giuliani dal futurismo al nuovo millennio”. La mostra, visitabile al Castello di Conversano (Ba) fino al 15 giugno, è un percorso, articolato in sette sale, che va avanti per gusto estetico e temi, evidenziando il passaggio dal figurativo all’aniconico. Ci troviamo di fronte 46 delle più rappresentative firme del XX secolo, che raccontano il momento in cui la pittura si libera della realtà per arrivare all’espressionismo astratto, all’action painting, al dripping, al geometrismo.

Le opere, tutte di piccolo o medio formato, provengono da una collezione privata. Ed è proprio Giuliani, il proprietario, ad accogliere il visitatore con il ritratto iperrealista che nel 2014 gli ha dedicato Marinelli. Si tratta di un ritratto impietoso, in cui le imperfezioni del volto sono l’elemento più evidente: macchie, rughe, punti neri sono esasperati come se fossero visti attraverso una lente di ingrandimento. L’artista è già andato oltre la realtà, superando il realismo caravaggesco. Dall’insegnamento di Tiziano e Giorgione ha recuperato l’analisi psicologica che passa attraverso lo sguardo. Il suo occhio, però, non è tanto quello, contornato da spesse lenti da miope, del protagonista. È, piuttosto, quello che si affaccia, sospeso nel vuoto, alle sue spalle a rappresentare il “doppio” di pirandelliana memoria.

“Luna rossa” di Paola Romano è un’opera materica a cavallo tra installazione e scultura, realizzata con l’utilizzo di diversi materiali. Anche questa non è una rappresentazione realistica, infatti è un disco e non una sfera. Rappresenta, invece, la visione che noi abbiamo in certe sere d’estate dal nostro pianeta: un disco, appunto, nel cui rossore si scorgono crateri irregolari. Luna rossa introduce un altro aspetto tipico dell’arte del Novecento: l’utilizzo di resine, catrami e misture varie.

Passando attraverso Isgrò, che, come Michelangelo, lavora per via di togliere, si arriva al tema del “paradosso”. Isgrò realizza quindi un mappamondo cubico e con il pennarello nero cancella intere parole. L’idea è che la forma sia incastonata nella materia ma questa volta, a differenza che in passato, non serve lo scalpello per liberarla. Lui è anche uno scrittore e il suo linguaggio artistico è la cancellatura, che ha il compito di ridare dignità al logos, la parola per eccellenza.

Nella terza sala esordiscono gli impressionisti, i primi che cominciano un lento ma inesorabile percorso di emancipazione della realtà. Attraverso luce e colore, dipingono un momento che va oltre la realtà. Dipingono, cioè, l’”impressione”, un attimo tra la vista e la decodificazione mentale dell’oggetto.

Accanto agli impressionisti i curatori collocano una litografia degli anni ’60, “Donna al bar”, che è anche la prima opera comprata dal collezionista quando aveva poco più di vent’anni. Il precedente illustre è “La bevitrice d’assenzio” di Degas: una donna sola che guarda nel vuoto, seduta al tavolino di un bar con un bicchiere in mano, icona dell’emancipazione femminile ma anche simbolo di nuove solitudini e dipendenze nella società del boom economico.

Geometria e astrazione sono i passaggi necessari verso una pittura pura, liberata dal figurativismo del disegno. Action painting e dripping sono fisica, azione, ma i colpi di colore non sono casuali. Attraverso l’uso di colori complementari si ottiene un risultato piacevole alla vista.

Quasi in chiusura si trovano due opere iconiche di Giorgio De Chirico. La prima rappresenta una delle sue celebri piazze d’Italia ed è stata realizzata negli anni ’20 quando l’artista viveva a Parigi. Questa è una piazza mentale, sentimentale, sfocata dal ricordo e dalla nostalgia. Non c’è il tempo; le ombre e il colore del cielo non fanno capire che ora sia. È un momento solo mentale, con pochi sprazzi di realtà che si ritrovano in due uomini che si stringono la mano e nel trenino sullo sfondo. Nell’iconologia di De Chirico la presenza dei treni, come quella delle squadre, rimanda al padre, ingegnere ferroviario. Le squadre compaiono insieme ai celebri manichini nella seconda opera esposta: una denuncia della società di massa, dove l’uomo contemporaneo è omologato e mai originale. Un uomo senza volto, come recitava il titolo di un libro del fratello del pittore.

Poi c’è Morandi con la sua metafisica degli oggetti che gli vivono intorno. Lui fa un percorso artistico assolutamente autonomo e dalla sua stanzetta nella casa dei genitori a Bologna dipinge, alla maniera impressionista, bottiglie e caffettiere dal profilo incerto, che assurgono a metafora della nostra vita.

Insieme a Balla, fondatore del movimento futurista, chiudono il percorso espositivo tre opere (due tempere e un olio) di Mario Sironi. Nella loro successione, queste propongono e rappresentano due momenti chiave della storia del Novecento: la seconda guerra mondiale e l’industrializzazione. Sironi, infatti, pur avendo aderito inizialmente al movimento futurista, diventerà un artista di Regime e produrrà teste virili che sono esaltazione inequivocabile del superomismo proprio dell’ideologia fascista. Famoso anche per i suoi paesaggi di montagna, dove aleggia un senso di spiritualità, nel dopoguerra, in pianta stabile a Milano, dipingerà le periferie urbane/industriali. Strade ferrate, palazzoni, ciminiere e nulla più.

Attraverso le 58 opere esposte si articola un’altra questione centrale nella critica artistico/filosofica del Novecento, ovvero cosa sia l’opera d’arte nell’epoca della sua canonizzazione museale. La scelta dei ready-made (oggetto già esistente, liberato dai suoi scopi funzionali ndr), per esempio, non è mai stata dettata dal piacere estetico ma, piuttosto, da un motivo di reazione all’indifferenza visiva. Duchamp, capovolgendo il suo famoso orinatoio, non ambiva a realizzare qualcosa di bello ma un capovolgimento di prospettiva che tirasse in ballo anche l’interpretazione dello spettatore. D’altronde Duchamp detestava quella che chiamava “arte retinica”, ovvero l’arte che dà piacere all’occhio. Per questo è imprescindibile citare, nella collezione Giuliani, l’opera su carta di Giuseppe Chiari, realizzata sulla pagina rovesciata di uno spartito per esercizi musicali, sottratta dalla partitura e resa supporto e fatto artistico.

In effetti, “Passione ‘900” è una mostra costruita come un ipertesto, con diversi percorsi di lettura e di senso. La scelta dei due curatori, Giacomo Lanzillotta e Massimo Guastella, sembra ispirata alla necessità di trattare il messaggio artistico come “opera aperta”, capace di restituire una nuova visione del mondo “non solo nell’ordine dei contenuti, ma in quello delle strutture comunicative”. Anche questa è una conquista tutta novecentesca.

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