di Maurizio Boldrini
“Aquí se queda la clara/la entrañable transparencia,/de tu querida presencia,/ Comandante Che Guevara”: questo ritornello era già entrato in testa di migliaia di giovani e già lo cantavano prima che arrivasse la triste notizia: Ernesto Che Guevara, El Che, è stato ucciso. Era l’Ottobre del 1967. Come un lampo la notizia valicò oceani e monti. Poi lentamente cominciarono ad arrivare i dettagli della tragedia. Era stato ucciso, a sangue freddo, da un militare boliviano che, obbedendo al suo governo, gli aveva sparato al petto dopo averlo ferito in uno scontro a fuoco. Arrivarono, giorni dopo, le immagini del suo corpo straziato che era stato esposto, nel lavatoio di Vallegrande, come trofeo per ordine del presidente boliviano e della CIA. Le sue mani vennero amputate e fu seppellito in una fossa comune. Loro, i giustizieri, passeranno alla storia come loschi figuri al soldo dello strapotere degli USA che amavano tenere al guinzaglio l’intera America latina. La sua presenza, invece, diventerà il simbolo della lotta contro il potere. Un mito rivoluzionario. Un’icona, come dicono oggi.
Per mesi e mesi, nelle serate tra amici e nelle manifestazioni, si continuò a cantare la canzone che Carlos Puebla aveva scritto quando il Che aveva lasciato Cuba, due anni prima della sua uccisione. Lo aveva fatto con una lettera d’addio a Fidel Castro, tuttora misteriosa, con la quale riaffermava la sua solidarietà con l’isola liberata ma che sceglieva di andare a combattere altrove per una sorta di rivoluzione permanente.
Nel testo della canzone di Carlos Puebla ci sono tutti i momenti fondamentali della sua vita: l’invasione della Sierra Maestra, la Battaglia di Santa Clara, e poi ancora l’amore del Che per la Rivoluzione e il sentimento di dispiacere dei cubani per la sua partenza.
Dolce e dolente la musica trae ispirazione dalla tradizione popolare cubana e le parole suonano come un testamento. Di questa canzone ne esistono ormai più di duecento versioni: dal gruppo Company Segundo, da Joan Baez, Robert Wyatt con Ricky Gianco, i Nomadi, e Ivan Della Mea. Ognuno con il proprio stile ma nel più rigoroso rispetto del testo di Carlos Puebla.
Nei Convegni, nelle feste dei partiti della sinistra, e soprattutto nelle occupazioni di scuole e università, cominciò a circolare il diario del Che (“Diario di una rivoluzione”), pubblicato dalla Feltrinelli nel 1968, in pieno clima di occupazione delle scuole e degli atenei. I poster con il suo ritratto andavano a ruba e adornavano le stanze degli studenti e le sale pubbliche. Gli slogan (“Il Che è vivo e lotta insieme a noi”) si diffondevano accompagnando il vento della protesta. Sergio Endrigo, Angelo Branduardi, Bandabardò, Ivan Cattaneo, Pino Daniele, Gabriella Ferri Francesco Guccini, Roberto Vecchioni a Daniele Silvestri e gli Skiantos ne hanno cantato le gesta.
Tanto amato dai giovani, dalla sinistra internazionale e tanto malvisto dalla destra; venerato e vilipeso, ha polarizzato l’immaginario collettivo: la sua vita e le sue gesta hanno alimentato biografie, narrazioni epiche, musiche e film. Man mano che passavano gli anni la figura del Che assumeva sempre il ruolo di chi vuole ribellarsi alla prepotenza del potere. E man mano la sua storia divenne più completa e meno standardizzata.
Era argentino, il Che, e da giovane studente di medicina aveva attraversato tutto il Sud America. Aveva visto con i propri occhi, insieme all’amico e collega Alberto Granado, la fame dei campesinos e degli indios e la povertà di sconfinate masse. Era il dicembre del 1951. Con la sgangherata motocicletta, pomposamente battezzata “Poderosa”, vissero sette mesi di avventure e di incontri destinati a forgiarli. I lettori italiani si impossesseranno del loro racconto attraverso un libro, “Latinoamericana. I diari della motocicletta” pubblicato per la prima volta in Italia solo nel 1993 dalla Feltrinelli.
Solo più di un decennio dopo, a Città del Messico, Che Guevara si incontrerà con Fidel e Raul Castro che deciderà di unirsi al loro Movimento “26 Luglio” e a combattere contro il dittatore Batista.
Il Che è un’icona e tutt’oggi quello scatto del fotografo Alberto Korda, del 1960, è diventato un’immagine simbolo universale di ribellione e rivoluzione. Il suo sguardo penetrate rivolto al futuro e la stessa posa del corpo, hanno contribuito a fissare un’immagine del Che in cui si mescolano eroismo e vena romantica. E di eroi romantici il mondo ne ha avuto sempre bisogno.