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La PFM sulla scia di “Blade Runner”

Di cioccio e Djivas presentano il nuovo album, un "concept di come i computer stiano invadendo ogni aspetto della vita"

La PFM sulla scia di “Blade Runner”
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10 Novembre 2021 - 16.21


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di Lucia Mora

Il 22 ottobre 2021 è stato pubblicato dalla Inside Out Music “Ho sognato pecore elettriche”, il ritorno discografico di uno dei gruppi che più ha segnato il panorama musicale italiano: la PFM. Franz Di Cioccio ha impugnato le redini della Premiata Forneria Marconi e la sta conducendo verso una nuova fase della sua storia, accompagnato da Patrick Djivas al basso, da Lucio Fabbri agli archi, da Alessandro Scaglione e Alberto Bravin alle tastiere e infine dalla new entry Marco Sfogli alla chitarra.
 
Risale ormai a cinquant’anni fa l’esordio della band. Da quel lontano 1972 i cambiamenti sono stati tanti; due su tutti, la collaborazione nel ‘78 con Fabrizio De André (che aiuterà a porre maggiore attenzione alla scrittura dei testi) e il più recente abbandono di Franco Mussida, chitarrista dal talento straordinario nonché colonna portante del gruppo progressive. Il testimone non è però andato perso, anzi. Sfogli ha già dato prova di aver sostituito degnamente Mussida in “Emotional tattoos” (2017), disco di grande varietà musicale, dal prog al funk fino al jazz.

“Ho sognato pecore elettriche” riparte dalla stessa vena sperimentale, ma con un’importante novità: si tratta di un concept album dal sapore fantascientifico. Infatti, lo stesso titolo si rifà al romanzo “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (1968) di Philip Dick, reso celebre dalla fortunata trasposizione cinematografica di Ridley Scott “Blade Runner” (1982). «Gli androidi ci sono, sono intorno a noi, sono fatti di carne ed ossa, da chi cerca di influenzare i ragazzi su Internet» osservano Di Cioccio e Djivas durante la conferenza stampa di presentazione del disco. «Questo album è un viaggio intorno a quello che sta succedendo oggi, una sorta di concept di come i computer stiano invadendo ogni aspetto della nostra vita».

Può questo disco essere paragonato – naturalmente dal punto di vista musicale – alla visionarietà di Dick e di “Blade Runner”? Non del tutto. Se per certi versi l’inventiva non manca, il corpo centrale del disco sembra invece statica e poco originale. Forse per via del filtro “metallico” applicato alla voce di Di Cioccio (che certamente serve a calarsi in una realtà fatta di androidi, ma che a lungo andare annoia e appiattisce), forse per via di un contrasto troppo marcato tra brani progressive e musica leggera (cioè meno cervellotica), l’opera nel complesso non convince fino in fondo.

Ciò detto, ci sono diversi elementi interessanti che è giusto sottolineare. In primis, l’ottimo lavoro di rivisitazione dei testi da parte di Marva Marrow che dà vita a una versione inglese dell’album che coesiste con quella italiana in perfetta armonia, senza scadere in una banale copia tradotta. Impossibile ignorare poi l’apporto di due giganti del rock progressivo come Ian Anderson (l’indimenticabile flauto dei Jethro Tull) e Steve Hackett (la storica chitarra dei Genesis) nel brano “Il respiro del tempo / Kindred Souls”, che non a caso diventa il fulcro nevralgico di tutto il disco. Infine, l’ultima nota di merito va alla chiusa, intitolata “Transumanza”: una sorta di jam session pazza, inarrestabile e – questa sì – in pieno spirito sperimentale. Se l’intero lavoro avesse seguito questa scia prog rock, forse sarebbe stato più accattivante e meno ordinario.

Insomma, non stiamo parlando di un capolavoro come “Storia di un minuto” o “Per un amico”, ma la PFM resta pur sempre un punto di riferimento in un’epoca musicalmente poco stimolante.

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