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John Lennon, un faro per ogni generazione

Ucciso quaranta anni fa a New York resta il più grande e rimane un riferimento vero per chi è del tempo dei Fab Four di Liverpool.

John Lennon, un faro per ogni generazione
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7 Dicembre 2020 - 19.52


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A cura di Marcello Cecconi

Non gli batte più nemmeno il cuore, è molto calmo adesso che ha deciso. E’ finalmente lì, davanti al Dakota, un complesso di appartamenti sulla 72esima strada di Manhattan, New York, dove il suo bersaglio, John Lennon, vive dal 1973 con la moglie Yoko Ono. Ci sono molte persone davanti a quel portone, come sempre, in attesa dell’uscita dei due per un autografo, anche lui se lo fa rilasciare, poi, “Hey, Mr. Lennon”, chiama sommessamente Mark Chapman e spara, gli spara alle spalle per ben quattro volte con la sua 38 special. 

Era l’8 dicembre 1980, esattamente quaranta anni fa, e John Lennon veniva immediatamente trasportato all’ospedale ma le gravi ferite non gli lasciarono scampo. Chapman, invece di scappare, restò lì con in mano il suo libro preferito il Giovane Holden di J. D. Salinger, un libro che sin dal 1971, quando divenne attivista religioso Presbiteriano, lo condusse a immedesimarsi con il suo sbandato protagonista, Holden Caulfield. “Ho appena sparato a John Lennon”, rispondeva il killer a un testimone che lo aveva apostrofato chiedendogli se si fosse reso conto di ciò che aveva appena compiuto. Attenderà con calma la polizia, e in un’intervista successiva così spiegava le ragioni del suo folle gesto: “L’unico modo per diventare qualcuno era uccidere l’uomo più famoso del mondo, Lennon. Mi faceva imbestialire che lui avesse sfondato mentre io no. Eravamo come due treni che correvano l’uno contro l’altro sullo stesso binario. Il suo ‘tutto’ e il mio ‘nulla’ hanno finito per scontrarsi frontalmente”.

Così, improvvisamente, Chapman cancella un uomo, ma non la sua storia, il suo mito. Non cancella quelle emozioni della nostra generazione che si assembrava intorno a quella macchina infernale vista solo in alcuni film americani ma che nei primi anni Sessanta invase anche i bar della nostra provincia. Con un gettone che lasciavi cadere nella fessura ti regalava l’esaltazione di nove minuti di musica. Una scelta da ‘intenditore’ perché sapevi che attraverso essa comunicavi i tuoi gusti, la tua personalità ai ragazzi e ragazze che affollavano la sala del Juke box. ‘Che metti?’ era la domanda quando ti avvicinavi all’apparecchio con tutte le ragazzine che sghignazzavano tentando di condizionare i tuoi gusti, speranzose di essere accontentate con Una lacrima sul viso di Bobby Solo o Ciao ragazzi ciao di Celentano.  

E allora sì, con quella scelta tu dovevi sorprendere e l’occasione erano proprio i primi vinili dei Beatles, nuovo fenomeno mondiale ma che la carenza di televisioni nelle case italiane non ci aveva ancora del tutto trasmesso e, il loro primo concerto in Italia, arriverà solo nel 1965 al Vigorelli di Milano. E allora tu scegliendo i Beatles potevi ancora sorprendere, era bello farlo con Twist & Shout o Please please me che coinvolgevano, non poteva lasciarti immobile quella sonorità nuova che insieme a quelle voci particolari, incisive ma mai dure, faceva vibrare te e quelli che improvvisamente ti circondavano. Ecco che nasceva la beatlemania, un fenomeno sociologico di quella generazione che diventava adulta con la strana capigliatura e quelle giacche senza collo di quei ragazzi che facevano mostra di sé nelle copertine dei dischi. Furono ispirazione di molte band, quei ragazzi, marcando un fenomeno pop senza precedenti e che non potrà essere facile superare.

In quello stesso Jube box, nello stesso periodo, era il 1964, avevo conosciuto I feel fine, “She said so I’m in love with her” diceva una strofa, la cantava e l’aveva scritta proprio lui John. Me la sentivo mia e da allora restò il mio riferimento del gruppo di Liverpool che, però, si interruppe nel 1970 spezzando i cuori di molti e un po’ anche il mio. Chiusa anche con qualche rimpianto l’esaltante avventura dei Beatles, nella quale la complessa Yoko Ono aveva avuto un ruolo, John Winston Lennon si è lanciato nella carriera di solista che lo ha visto spesso alle prese con tentativi sperimentali, dallo strano progetto della Plastic Ono Band fino a quel gradito ritorno al pop d’autore. Trasferitosi a New York, Lennon consolida il suo mito con l’album Imagine (1971), che sbanca le classifiche in tutto il mondo. La struggente ballata utopistica della title track resterà il suo brano più celebre, ma nello stesso disco c’è anche la più importante ode sulla gelosia della storia del rock, quella Jealous Guy che molti cercheranno di reinterpretare ma che il solo Bryan Ferry riuscirà a renderla credibile.

I feel fine

Ci sarà poi l’impegno politico a tutto tondo che non sarà foriero di successi discografici fino al 1975 quando tornerà sulla vecchia strada con Rock and Roll, raccolta di ‘oldies’. Un silenzio di cinque anni per poi esplodere nel grandioso successo, proprio nel 1980, con l’ultimo suo album Double Fantasy  con Woman che sembra riaprire il cuore inquieto di Lennon verso una nuova sonorità di raffinato romanticismo e tenerezza infinita: “Woman I know you understand/ The little child inside the man/ Please remember my life is in your hands/ And woman hold me close to your heart/ However, distant don’t keep us apart/ After all it is written in the stars… I never meant to cause you sorrow or pain/ So let me tell you again and again and again/ I love you – yeah, yeah – now and forever”.

Imagine

Mentre l’album sta scalando tutte le classifiche arriva la tragedia a interrompere per sempre l’utopia del sognatore di Liverpool. Dopo mesi di isolamento sceglie proprio quel giorno, l’8 dicembre, per uscire finalmente di casa e recarsi allo studio di registrazione. E’ freddo, molto freddo, quella notte a New York.
 
 

 

 

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