Cofferati: «Il Pci ha eredi? Servirebbe una sinistra che difende i diritti di chi lavora»  | Culture
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Cofferati: «Il Pci ha eredi? Servirebbe una sinistra che difende i diritti di chi lavora» 

L’ex segretario della Cgil riflette su Partito comunista e sindacato dalla fine del '900: «Positivo il suo apporto alla storia sociale del Paese. Ma dopo la sinistra ha imboccato la via del liberismo»

Cofferati: «Il Pci ha eredi? Servirebbe una sinistra che difende i diritti di chi lavora» 
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20 Gennaio 2021 - 20.44


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La presenza di un forte Partito comunista in Italia ha inciso molto nella difesa dei diritti di chi lavora. Ma la sinistra non ha fatto il suo dovere verso i lavoratori e ne paghiamo il prezzo. Lo sostiene Sergio Cofferati, segretario della Cgil capace di convogliare forze e idee in un periodo di stravolgimenti di idee e sociali come quelli tra gli anni ’90 e i primi anni 2000 in questa riflessione con globalist scaturita dai cento anni dal giorno in cui venne fondato il Partito comunista d’Italia, il 21 gennaio 1921 a Livorno.
Da sindacalista dopo una militanza partita come impiegato alla Pirelli di Milano divenne segretario nel 1994 per finire il suo mandato nel 2002. Oggi quasi 73enne, dopo la Cgil Cofferati è stato sindaco di Bologna dal 2004 al 2009 ed europarlamentare del Partito democratico dal 2009 al 2019. Resta nella memoria di molti la manifestazione che guidò al Circo Massimo di Roma nel 2002 con almeno tre milioni di persone, per il sindacato, in difesa dello Statuto dei lavoratori.  

Il Pci è stato un argine a svolte autoritarie? Negli anni ‘60-70 la possibilità della sua vittoria elettorale portò forze più o meno occulte a concepire veri colpi di Stato. 
Sì, Gladio (organizzazione paramilitare anti-comunista di cui si seppe solo dagli anni ’80, ndr) era nata per quello. Teniamo conto che nel nostro Paese la democrazia è radicata, per nostra fortuna, però c’erano anche persone che avevano l’obiettivo di restringere la democrazia cresciuta con la Resistenza e con la fine della guerra. Per queste persone il Pci era un obiettivo: pur di non averlo al governo erano disponibili a dare peso e visibilità alla loro intolleranza verso la democrazia. 
Quanto e come ha inciso il rapporto tra Cgil e Pci nel conquistare e difendere i diritti dei lavoratori?
Il sistema dei diritti delle persone ha due fondamenti: uno quelli individuali, l’altro quelli collettivi. Nel rapporto tra partiti politici e organizzazioni sindacali ognuno, pur colloquiando con l’altro e a volte lavorando insieme, ha dato come era ovvio la giusta prevalenza al suo “mestiere”. Per le organizzazioni sindacali, in questo caso la Cgil in qualche circostanza più di altre, il contratto era lo strumento e la contrattazione la metodologia per migliorare le condizioni materiali, salariali, di sicurezza, per avere il riconoscimento dei diritti a cominciare da quello di farsi rappresentare, da parte i lavoratori. I partiti, e quello era il terreno del Pci, dovevano fare le leggi da un lato per garantire almeno parzialmente gli effetti della contrattazione, dall’altra per dare una dimensione più ampia ad alcuni diritti. Non potevano essere solo i diritti del lavoro, bisognava avere anche diritti di cittadinanza. Questo incrocio porta a una circostanza storica poco ricordata ma importante per la storia degli uni e degli altri: nel 1970 nasce lo Statuto dei lavoratori. La legge 300, o Legge Brodolini come era chiamata dal nome del ministro del Lavoro che la promosse, venne approvata in Parlamento e il Partito comunista si astenne.  Quello Statuto poi negli anni è diventato un riferimento nella vita delle persone. 
Come mai?
Quella legge non era stata approvata dal Pci perché voleva di più. Non era una presa di distanza negativa. Nel tempo i diritti del lavoro sono cambiati e dopo i tentativi di manomettere lo Statuto e di cancellare l’articolo 18, tentativi respinti, è arrivato il Job Acts. Matteo Renzi è riuscito in quanto non è riuscito Berlusconi. In ogni caso il tema si ripropone perché c’è un evidente problema di mancanza di diritti nel mondo del lavoro. Quando il Pci nacque il Paese aveva una struttura prevalente agricola, con condizioni pesantissime per le donne e gli uomini, tant’è che una delle prime battaglie fu sulle otto ore. Nel dopoguerra l’attività prevalente italiana ed europea è quella industriale. 
Oggi?
Ci sono aree dove l’innovazione e la tecnologia hanno cambiato il modo di lavorare radicalmente. È stata ridotta la fatica fisica però sono state create fatiche di altra natura, anche psicologiche, e spesso la tecnologia è stata usata per ridurre la libertà di chi lavora perché si è reso possibile il controllo a distanza spesso con conseguenze negative. La situazione di oggi non niente a che spartire con quel passato: ci sono profili professionali altissimi nati con la tecnologia e dall’altra parte c’è un lavoro manuale non meno pesante di quello agli inizi del ‘900 come chi raccoglie frutta e verdura in Campania o distribuisce il cibo in città a cottimo peraltro pericoloso perché pagati sulla base dei pasti consegnati. 
Come è cambiato il rapporto del partito, che si sciolse nel 1991, con i sindacati e in particolare con la Cgil negli anni ’70 e ’80?
Ci fu in quegli anni uno snodo molto importante: fu introdotta l’incompatibilità nel sindacato, ovvero un dirigente sindacale non poteva più avere incarichi di partito e viceversa come in precedenza. Quell’autonomia fu molto importante: prima era più difficile avere attenzione dagli altri e produrre novità positive in virtù della dialettica rafforzata invece da quella autonomia. 
Sull’apporto del Pci alla storia sociale del lavoro qual è il giudizio?
Indubbiamente nell’intero periodo è positivo. C’è stato un rallentamento di attenzione e una caduta di iniziativa nella sinistra e in quello che nel frattempo il Pci era diventato in tempi recenti. L’errore più clamoroso, che ha prodotto guasti non ancora rimediati, è stato imboccare la “terza via” quando la globalizzazione è esplosa. È l’inganno blairiano (dal leader laburista britannico Tony Blair, ndr), il “possiamo fare meglio di loro se ci comportiamo come loro”, l’imitazione pedestre del liberismo, l’aver dato retta in Europa e in Italia a Tony Blair ignorando lo straordinario contributo culturale di Jacques Delors. Il suo “Libro bianco” del 1993 e il “Trattato di Lisbona” del 2000 sono stati ignorati dalla sinistra europea che era al governo nella maggioranza di paesi europei. Lui proponeva una competizione che aveva come fondamento la conoscenza, la ricerca, l’innovazione, la scuola, mentre il modello dalla “terza via” era il liberismo sfrenato: sfruttiamo la manodopera togliendo diritti, riducendo salari, allungando i tempi di lavoro. Così se produco a costi bassi perché non riconosco diritti e salari sarò competitivo sul mercato: non è la qualità né come produco l’arma vincente, è il pagar poco. E la sinistra europea si è adagiata. 
Quindi, sostiene, il Pci non c’è più ma dovrebbe esserci un partito che ne fosse vero erede?
Sì. La contingenza storica ha il suo peso ma è fatta anche dalla rappresentanza sociale e politica: che sono utili quando operano con efficacia e soprattutto hanno valori ai quali fanno riferimento che riguardano l’economia del lavoro e la società. Per questo quando si parla di diritti bisogna avere in mente quelli individuali.

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