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“Il comunismo è un ideale”. Nel “Vento della rivoluzione” Flores e Gozzini ci spiegano la storia del Pci

I due storici indagano su settant’anni di storia italiana nel contesto del centenario del Partito comnista nato a Livorno il 21 gennaio 1921. Pubblichiamo due brani dal loro saggio

“Il comunismo è un ideale”. Nel “Vento della rivoluzione” Flores e Gozzini ci spiegano la storia del Pci
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14 Gennaio 2021 - 15.44


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Nel contesto del centenario della fondazione del Pci, il 21 gennaio, esce un testo a doppia firma di due fra i più noti studiosi di storia contemporanea, Marcello Flores e Giovanni Gozzini, dal titolo Il vento della rivoluzione per la Collana storica di Laterza (pag. 280, Euro 24).
Dagli eventi ancora brucianti della Grande Guerra ma soprattutto dall’immaginario della rivoluzione bolscevica in Russia e la vittoria di Lenin si crea il sogno, che poi diventa programma politico, dei comunisti italiani. Era il 1921 quando a Livorno inizia la storia di questo piccolo Partito dei Comunisti d’Italia che diverrà un grande partito di massa che contribuirà alla riconquista delle libertà democratiche. Una storia lunga settant’anni nata con l’Unione Sovietica e che si conclude con fine della stessa nel 1991. I due storici indagano sulla nascita, sulla capacità di rappresentare bisogni chiave della trasformazione di una piccola schiera di sognatori in un grande partito di massa con un’organizzazione capillare e sul perché della sua fine. Per gentile concessione degli autori e della casa editrice pubblichiamo due pagine dal libro:

Flores e Gozzini: il comunismo è stato un ideale

Pag. 204 – C’è un aspetto della fondazione del Pcd’I che sfugge ai documenti storici che abbiamo analizzato e cercato di interpretare. Ma che paradossalmente è forse il più importante: il comunismo è stato un ideale. Qualcosa cioè di sfuggente e confuso, variabile da persona a persona, ma proprio per questo molto potente. Ancor più potente perché si mescola a sentimenti atavici e universali come l’uguaglianza, la giustizia, l’amore per il prossimo, la ricerca della felicità (come dice la costituzione degli Stati Uniti). Può sembrare un tragico paradosso ma anche all’origine del gulag e della morte sistematica di massa in Unione Sovietica si trova questo ideale.
Per quel che riguarda l’Italia, al fondo dell’ideologia di partito, delle scelte dei gruppi dirigenti, degli errori clamorosi, delle rigidità settarie, si colloca questo nucleo originario di solidarietà con i più poveri, di volontà di miglioramento di sé e degli altri, di reazione al male e di propensione verso il bene. Quasi sempre è questa la molla originaria che porta uomini e donne ad aderire al partito. Come, del resto, avviene per coloro che aderiscono al partito socialista o ad altre organizzazioni della sinistra, come Giustizia e Libertà. Poi, col tempo e con l’età, questo impulso iniziale si trasforma e diventa istituzione: militanza, organizzazione, dibattito, divisioni, rivalità, obbedienza, impiego, carriera. Il sentimento diventa politica e quasi rinnega s. stesso, perché si piega alla razionalità. Nessuno dei dirigenti comunisti che abbiamo cercato di raccontare – tranne forse Gramsci in certi momenti della sua vita – confesserebbe anche a sé stesso tale evoluzione. Per loro il comunismo è una fede fredda e una disciplina, che deve convincere con il ragionamento e rifuggire dai buoni sentimenti. è più facile per i militanti semplici, di base, per i quali il comunismo non è mai diventato un posto di lavoro, ritrovare il senso originario di quella emozione. Ma anche i dirigenti di mestiere, i funzionari di partito, se potessero tornare indietro, fino all’inizio del loro cammino in politica, ritroverebbero quel movimento passionale della coscienza verso il bene degli altri. Che è poi l’essenza della democrazia e dell’essere sociale di ciascuno. È questa natura ideale del comunismo che fa dire a Turati «siete onesti», anche di fronte alla manifestazione peggiore del loro settarismo. Nessuno lo poteva dire e lo potrebbe dire dei fascisti che andavano a menare le mani.

Pag. 212 –Con tutti i suoi «peccati originali» importati dall’Oriente e i suoi silenzi colpevoli sui crimini sovietici, il Pci è stato un partito. Una parte costituente della democrazia italiana. Poteva essere un partito diverso se in alcuni momenti (1926, 1948, 1956) i suoi dirigenti avessero avuto più coraggio, soprattutto nel senso di recidere quel cordone ombelicale con il Cremlino. Abbiamo anche cercato di indicare, volta per volta, gli impulsi teorici che il Pci propone alla crescita della società italiana ancora da prima della sua scissione-fondazione – i consigli di fabbrica eletti dal basso, la rappresentanza degli operai ai vertici delle aziende, la difesa della piccola proprietà contadina, la mobilitazione delle masse meridionali – ma che, non solo e non tanto per colpa del Pci, vengono lasciati cadere o distorti in senso clientelare nel tempo della Repubblica. Anche questa cultura politica riformatrice si attenua lungo la strada.
Negli anni settanta – quando, è bene ricordarlo, l’Italia rimane l’unica democrazia nell’intero fronte sud della Nato, da Lisbona ad Ankara – l’introiezione dei limiti imposti dalla guerra fredda porta alla strategia del compromesso storico anziché dell’alternanza e si accompagna, non casualmente, a una diffidenza circospetta nei confronti dei movimenti di massa che agitano la società. Molte leggi di riforma vengono allora approvate (anagrafe tributaria, regioni, statuto dei lavoratori, diritto di famiglia, divorzio, aborto, servizio sanitario nazionale) ma non tutte con l’appoggio del Pci che sembra ripercorrere – come nell’astensione sullo statuto dei lavoratori preparato dal socialista Brodolini – quel «bizantinismo» delle origini di Bordiga che preme per le riforme ma poi le condanna (si astiene) perché troppo arretrate e incomplete. Ma il Pci contribuisce anche a costruire il fronte della fermezza contro i terrorismi, nonostante e contro le deviazioni degli apparati di sicurezza dello stato. E ne paga lo sforzo perdendo gran parte della sua spinta riformatrice.

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