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Perché non è sbagliato raccontare il Termopolio di Pompei come un ‘fast food’

Ricorrere agli anacronismi (come il fast food o lo street food di 2000 anni fa) diventa legittimo perché aiuta a far sentire un po’ meno lontani coloro che hanno usato quegli oggetti e quei luoghi.

Perché non è sbagliato raccontare il Termopolio di Pompei come un ‘fast food’
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Gabriella Piccinni Modifica articolo

27 Dicembre 2020 - 19.50


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Da qualche giorno la nostra attenzione è affascinata da un galletto. Il lavoro ininterrotto degli archeologi nel sito di Pompei ha, infatti, restituito l’affaccio esterno di una locanda che 2000 anni fa vendeva in strada cibi caldi e bevande.

L’ambiente è stato subito battezzato, forse con non troppa originalità, come “un fast food di 2000 anni fa”, e il cibo che vendeva come “uno street food del 79 dopo Cristo”.
Il nostro galletto, dipinto sul bordo esterno del bancone a forma di ‘elle’ dove nove pentole in coccio incastrate presentano ai passanti cibi cotti, sembra fiero della sua cresta, dei suoi bei bargigli rossi e di una stupenda coda di penne nere, mentre sta osservando, immaginiamo con qualche inquietudine, la brutta fine di due oche la cui testa ciondola già dal bancone.

Il galletto, le anatre, un cane e altre belle immagini che decorano il bancone sul fronte stradale sono come l’insegna di una locanda e invitano chi passa in strada ad avvicinarsi per acquistare e consumare cibo e bevande. Si tratta di capretto, pezzi di maiale e di anatra, lumache di terra, in qualche caso cucinati con del pesce.

In una giara il vino, corretto con il gusto delle fave, è pronto per la mescita e gli archeologi sono stati colpiti dal suo odore ancora penetrante. Del resto, come avrebbe spiegato San Bernardino diversi secoli dopo: “a che si cognoscono le buttighe, eh? Ale insegne”.
La locanda che oggi desta la nostra curiosità non è l’unica ritrovata, ce ne sono molte altre a Pompei, almeno un’ottantina, ma l’ottima conservazione di questa ha messo in moto la macchina della divulgazione e tra poche ore (rispetto al momento in cui scrivo) la Rai trasmetterà un documentario frutto di una coproduzione italo-francese. C’è molta attesa e certamente gli ascolti saranno alti. Viene da chiedersi perché.
Il fatto è che noi, osservatori moderni, abbiamo molta curiosità di comprendere la quotidianità dei nostri antenati, e osservare gli oggetti del passato, gli strumenti e i contenitori emersi dagli scavi archeologici ma più tardi anche enumerati negli inventari, riprodotti nelle miniature, nelle tavole, negli affreschi, nelle novelle già significa evocare la vita delle persone che li hanno usati o abitati.

Quei gesti, quegli ambienti, quelle architetture e quegli oggetti che il passato semina sul nostro cammino, quelle pentole, quei cibi, quei modi di cucinare, addirittura quegli odori, ma anche quelle pialle, quelle bilance, quei mulini, quelle botteghe, quegli aratri ci attraggono perché ci aiutano prima a misurare e poi a colmare l’immensa distanza che separa le cucine, le case, i filatoi, i telai, le fornaci, le fucine, le cartiere, le concerie, gli arsenali, le tintorie, i mulini, le locande, i manici e ogni altro luogo, oggetto o impianto del passato, dai loro omologhi contemporanei. Cose che abbiamo collettivamente dimenticato ma che vorremmo ricordare, segmenti di conoscenza che hanno per noi lo stesso valore di un documento che informa su fatti lontani, che racconta come funzionavano le cose nel tempo che fu.
Il termopolio (così si chiama quel tipo di locanda) di Pompei, ci fa capire ad esempio in modo immediato che vendere e acquistare cibi cotti sulla strada non è una invenzione dei nostri anni e che il grido “mangi oggi e paghi fra otto giorni!” con cui Sofia Loren invitava a comprare la pizza fritta sulla soglia della sua casa può essere stato simile a quello delle sue, delle nostre, antenate (L’oro di Napoli, diretto da Vittorio De Sica nel 1954).

A Palermo, alla fine del XIII, secolo si vendevano in strada il torrone, le frittelle, le cassate e le fave cotte, e torte di pane e ricotta. A Siena le donne vendevano sull’uscio di casa la salsa verde, la composta e la mostarda. A Bologna e Firenze, ma in chissà quante altre località d’Europa, centinaia di buche da vino servivano per smerciare il prodotto senza che l’acquirente entrasse nel locale.
Il fatto è che, quando la vita di tutti i giorni fa la sua irruzione davanti ai nostri occhi, ci spalanca un mondo che sembra comprende nella storia anche i gesti di noi gente comune. E allora anche ricorrere agli anacronismi (come il fast food o lo street food di 2000 anni fa) diventa legittimo perché aiuta a far sentire un po’ meno lontani coloro che hanno usato quegli oggetti e quei luoghi.

Se ci avviciniamo al passato con questa curiosità per gli esseri umani, per i loro gesti, se annusiamo i loro odori e immaginiamo il gusto strano dei loro cibi, ci accorgiamo certo quanto quel mondo che non c’è più sia diverso da ciò che siamo, da ciò che l’Europa è oggi diventata; eppure, come ha scritto Jacques Le Goff, abbiamo anche “l’impressione di fare un viaggio all’estero, in Egitto, India, Cina o America centrale”. E allora ogni viaggio nel passato ci regala il duplice piacere di incontrare insieme l’altro e noi stessi.

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