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Rosalia Montmasson, garibaldina dimenticata perché Crispi la ripudiò

Marco Ferrari ha ricostruito la vita dell'unica donna nella spedizione dei Mille. Finita nel dimenticatoio. Pubblichiamo un brano dell'introduzione

Rosalia Montmasson, garibaldina dimenticata perché Crispi la ripudiò
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27 Febbraio 2019 - 14.39


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Difficilmente il nome di Rosalia Montmasson vi suonerà familiare. Eppure questo buio è una sepoltura della memoria collettiva ingiusta: fu l’unica donna sbarcata a Marsala l’11 maggio 1860 tra i garibaldini, la chiamarono «l’Angelo dei Mille» per la dedizione verso i feriti, per il suo coraggio. Ma è finita dimenticata. Perché suo marito, Francesco Crispi, prima la ebbe a fianco nei tempi più duri, poi diventato parlamentare la ripudiò. Ne ha scritto una biografia che è come un romanzo Marco Ferrari (Rosalia Montmasson, Mondadori, pp. 228 pagine, € 20,00), scrittore, autore televisivo e giornalista spezzino che ha raccontato il Tirreno, la sperduta isola atlantica di Tristan de Cunha, la sua Liguria, che ha già scritto su Garibaldi, che ha scavato spesso in vicende poco note e adesso riannoda i fili della narrazione intorno a Rosalia Montmasson.

Nata a Saint-Jorioz, in Alta Savoia, il 12 gennaio 1823, donna dell’alta Savoia, “di famiglia molto semplice”, lavandaia e stiratrice, che sposa Francesco Crispi, diventerà una messaggera e staffetta della cospirazione, dei repubblicani, dei mazziniani e dei carbonari, convinta idealista rischia la vita. Sostiene lei spesso la coppia familiare. Con la nascita dello Stato italiano, ricorda la nota editoriale, “una volta eletto in Parlamento, Crispi la ripudia, sposando Lina Barbagallo. Accusato di bigamia, si difende, vincendo la causa che di fatto annulla il matrimonio con Rosalia. La quale, costretta al silenzio, vive esiliata nella solitudine di una Roma che non la riconosce come un’eroina della patria”. Rosalia Montmasson nel 1904 “è morta in solitudine, è stata seppellita al Verano, in una modesta tomba messa a disposizione dal comune di Roma”. Pubblichiamo qui un estratto per gentile concessione dell’autore. Che presenta il libro alla Libreria Feltrinelli di Firenze, in Via de Cerretani 40, giovedì 28 febbraio con Rosa Maria Di Giorgi e Erasmo D’Angelis.

Marco Ferrari: chi ha patito ingiustizie dorme male

Se gli ingiusti dormono bene, coloro che hanno patito delle ingiustizie riposano male. Per questo Rosalia usciva presto la mattina. Di solito si alzava all’alba e perdeva tempo a coccolare i gatti, a prepararsi una tazza di latte in cui inzuppava dei biscotti della salute, a lavarsi con lentezza, a pulire la cucina, spolverare gli angoli delle porte e delle finestre e vestirsi con estrema cura. Non faceva caso se gli abiti erano rammendati e stinti. Lei li stirava con le mani, quasi li accarezzava godendo di quell’odore di bucato fresco che le rammentava solo lontanamente i profumi francesi che usava porre sul collo e dietro i lobi delle orecchie.
Ne conservava ancora un paio di boccette da cui, con grande sforzo e immaginazione, si poteva persino annusare la fragranza. Quando doveva pettinarsi si metteva a canticchiare in francese un brano di Natale di Bessans e le prime rime della canzonetta infantile, «Alouette, gentille alouette, alouette, je te plumerai», ma non sapeva le altre strofe e dunque ripeteva le stesse sorridendo ai gatti che la attorniavano.
Quando sentiva nelle scale i rumori degli altri condomini di via Torino, a Roma, pronti ad andare al lavoro o a scuola, allora sospirava contenta, si guardava allo specchio e si preparava per uscire. Come ultimo atto, il più delicato, si metteva al collo la croce di diamanti che i reduci dei Mille le avevano regalato grazie a una colletta fatta in tutta Italia, ma la nascondeva dentro gli abiti temendo che qualcuno potesse rubargliela. La semplicità dell’abitazione e l’olezzo dei gatti segnavano la sua scarsa agiatezza anche se, uscendo in strada, la gente la salutava con una certa cortesia, gli uomini togliendosi il cappello e le donne lasciando una scia di chiacchiere. Contrattava frutta e verdura al mercato, sapeva che poteva contare sui crediti al negozio di alimentari e che il ristorante sotto casa non le negava qualche avanzo per i gatti, ma oltre una vita anonima e ordinaria non poteva andare. Guardava con malcelata invidia la gente che entrava a teatro, le donne che prendevano il tè nei locali alla moda, le madri che compravano i giocattoli ai loro piccoli, ma osservava anche i poveri che chiedevano l’elemosina, i senzatetto che dormivano sotto i portici, gli alcolizzati che stazionavano davanti ai locali e si sentiva colpevole di non aver realizzato i suoi ideali. Poi, quando vedeva torme di emigranti dalle parti della stazione ferroviaria sentiva una stretta al cuore. Sapeva cosa voleva dire abbandonare i propri luoghi natali e andare in cerca di una nuova identità nel mondo e intuiva già quello che avrebbe patito quella povera gente diretta dall’altra parte del globo.

Nel tempo era ingrassata, ma aveva mantenuto una certa distinzione, appresa nel suo percorso di vita che l’aveva vista stringere la mano ai grandi statisti e alle regnanti d’Europa, prima di cadere in disgrazia e che su di lei si instaurasse una sorta di cappa oscura. Era come se camminasse accompagnata da un’aureola di malinconia che la rendeva invisibile ai più. La sua figura ne conteneva altre, come il suo viso aveva subito delle modificazioni, ma tutto il suo passato pareva inevitabilmente cancellato, negletto, negato. Lei non era più nessuno. Era un’ombra che si muoveva in una città sempre più caotica e tentacolare che aveva inglobato tutte le novità del secolo appena iniziato, il Novecento, senza valorizzare la sua grandezza passata. In fondo la città di Roma assomigliava al suo declinante percorso di vita, trattenuto spesso in un sospiro quando passava davanti ai grandi edifici della politica, come Palazzo Montecitorio o il Quirinale.

L’incontro con Elia, garibaldino
Ma una mattina accadde un fatto che mutò la piattezza dei suoi giorni sempre uguali. Mentre camminava in via Nazionale in un traffico di gente e carrozze, tra strilloni e venditori ambulanti, crocchi di militanti politici e scolaresche, un signore di una certa età inciampò e cadde a terra. Lei raccolse il suo bastone, che era finito nel mezzo del marciapiede, ma abbassandosi fece intravedere la collana. Allora il signore che ancora stava a terra la indicò senza riuscire a dire una parola, come fosse pietrificato. Quando Rosalia si avvicinò per porgergli il bastone, mentre alcune persone lo aiutavano ad alzarsi, finalmente l’uomo ritrovò la parola: «Rosalia! Rosalia! Santa Rosalia! L’Angelo dei Mille!» gridò come avesse visto la Madonna. Lei rimase sorpresa che qualcuno l’avesse riconosciuta in quel marasma di gente e soprattutto la inquadrasse con un nome di battaglia che lei stessa non usava da tempo. Lo guardò negli occhi, notò una vecchia ferita alle labbra e una cicatrice sul volto e sfogliò l’album della memoria senza trovarne conforto. Ma appena si ricompose, rassettandosi gli abiti, e tenendo ferme le persone che l’avevano aiutato, l’uomo urlò alla strada: «Signore e signori, voi non sapete chi avete davanti: Rosalia, l’angelo di Calatafimi, l’unica donna della spedizione dei Mille, una madre della patria!». La gente fece capannello attorno ai due che andavano ad abbracciarsi.

«Sono Augusto Elia, mi curaste a Calatafimi!» Rosalia ebbe un fremito e trattenne il respiro: «Foste voi, caro Augusto, a salvare la vita al generale: vedendo che un cacciatore borbonico prendeva la mira vi soprapponeste a Garibaldi ricevendo nel volto la pallottola nemica».
Lui annuì pensoso: «E ricordate cosa disse il generale quando mi rovesciò con la faccia a terra per evitare che il sangue mi soffocasse?».
«Certo, disse: “Coraggio, mio Elia, di queste ferite non si muore!”. E vedo che ha avuto buon fiuto, mio caro Augusto.»
Il sorriso l’accompagnò tutto il giorno, l’aver rivisto il garibaldino Augusto Elia l’aveva resa felice e aveva riattivato un circuito di memorie che giaceva compresso dentro di lei, un abbozzo confuso di immagini che non trovava ormai quasi più spazio nei suoi pensieri di ogni giorno. Pranzando insieme la loro gioventù rinvigorì e tornò d’impeto nei loro animi, ormai spenti e avviliti.
Se Rosalia era quasi costretta a dimenticare il proprio passato, il garibaldino faceva dei suoi trascorsi l’arte della vita, tra onorificenze e conferenze, celebrazioni e discorsi, circondato da un pubblico di tutto rispetto. Lei non confessò l’imbarazzo di convivere col silenzio delle cose perdute poiché Augusto Elia, come tanti garibaldini sopravvissuti a ogni tormenta, sapeva quale era stato il suo amaro destino.

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