Non c'è un otto marzo da festeggiare, quest'anno

Le lotte della seconda metà del Novecento hanno sgretolato vecchi assetti culturali e legislativi ma la parità vera dei generi tarda ad arrivare.

Non c'è un otto marzo da festeggiare, quest'anno
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Gabriella Piccinni Modifica articolo

8 Marzo 2021 - 09.21


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Del mio primo 8 marzo in piazza ricordo due cose, un’allegria lieve e uno strano sentimento che non so definire meglio che come un leggero imbarazzo. Penso che quest’ultimo dipendesse da quel tanto di coraggio che ci vuole sempre per guardarsi per la prima volta negli occhi, come donne o come uomini. Era qualche marzo, immagino, dei primi anni Settanta, e molta acqua era già passata e doveva poi passare sotto i ponti della storia italiana.

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La Costituzione repubblicana era entrata in vigore nel 1948 con quel suo art. 3 che parlava della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza fra i cittadini, e con quel suo art. 29 che proclamava l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Ma le italiane avevano dovuto aspettare il 1956 perché la Corte di Cassazione decidesse che al marito non spettava più nei confronti della moglie e dei figli lo ius corrigendi, ossia il potere educativo e correttivo che da millenni comprendeva anche la violenza fisica.

È innegabile che su molti terreni le lotte, talvolta durissime, delle donne hanno da allora sgretolato assetti culturali e legislativi consolidati eppure molti di quegli “ostacoli” dei quali parla la nostra Costituzione non sono stati rimossi, ma stanno sempre lì, a parlare di libertà e eguaglianza non raggiunte.

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In qualche momento la trasformazione è stata più rapida. Nel 1966 la giovane siciliana Franca Viola rifiutava di sposare l’uomo che l’aveva violentata e il cambiamento culturale accelerava, ma poi sul piano legislativo il delitto d’onore sarebbe crollato solo nel 1981 quando dal nostro ordinamento sarebbe scomparso l’istituto del matrimonio riparatore (legge n. 442) che prevedeva l’estinzione del reato di stupro nel caso in cui lo stupratore di una minorenne accettasse di sposarla.

Cinquanta anni fa, nel 1970, è stato consentito il divorzio (legge n. 898) mettendo così fine a quel tabù culturale della società italiana che diceva che sposarsi era una scelta per la vita anche quando si fosse trasformata in una condanna a vita.  

Nel 1975 con il nuovo diritto di famiglia cadeva anche il principio della patria potestà e entrava nella legge italiana la parità tra i coniugi. Nello stesso anno una nuova legge istituiva i Consultori familiari, e questa grande conquista, frutto della mobilitazione dei movimenti femministi e per il diritto alla salute, anticipava altre riforme importanti: nel 1978 arrivano la tormentata legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (legge n. 194) e la riforma sanitaria (legge n. 833).

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Solo nel 1996, dopo circa vent’anni di iter legislativo, il reato di violenza sessuale è traferito dal Titolo IX (Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume) al Titolo XII del codice penale (Dei delitti contro la persona). Un altro passaggio culturale fondamentale.

E così anche la festa delle donne dell’8 marzo ha vissuto la sua lunga storia italiana. Solo in qualche, breve, momento è sembrato che le conquiste legislative fossero accompagnate da quel cambiamento culturale e nel rapporto tra i sessi che è il solo a poterne garantire la vera applicabilità nella società. E allora la storia di tanti 8 marzo si è intessuta con la gioia delle (tante) conquiste e con l’amarezza dei fallimenti, con la rabbia per le prevaricazioni ma anche con la voglia di giocare, coi canti, i pianti, le cene con le amiche e la mimosa, con la fatica di crescere e rimettere in discussione i ruoli, le madri e i padri, col bisogno di amore e libertà, con la solidarietà e le divisioni, con la difficoltà della trasmissione tra le generazioni e della relazione tra donne.

La frustrazione e un senso indefinibile di fallimento si sono poi materializzati di fronte agli attacchi portati senza vergogna contro quelle leggi, solo per mantenere il numero più alto possibile di donne lontano dai luoghi di lavoro, nelle famiglie, come sempre è accaduto nella storia quando c’è stato poco lavoro per tutti.

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Si sono trasformati in un pugno nello stomaco certi titoli compiaciuti o ammiccanti o certe frasi volgari che ancora oggi troviamo nei giornali, nelle televisioni o anche nei testi delle canzoni  quando si parla di femminicidi o di violenze, quasi che non fossero passati oltre quaranta anni da quel 1977, quando la senatrice della Sinistra indipendente Tullia Romagnoli Carettoni chiedeva ai ministri quali iniziative intendessero prendere “contro la violenza nei confronti delle donne, che va assumendo proporzioni sempre più preoccupanti”.

Tanto è stato accelerato quel processo dagli anni Settanta, quanto sembra allontanarsi oggi il traguardo dell’uguaglianza di genere. Molti dei principi della nostra Costituzione non sono ancora applicati e ci sono ancora muri da abbattere come quello che impedisce di investire sulle infrastrutture sociali per liberare le donne da un sovraccarico di cura familiare che ostacola la loro realizzazione sul piano del lavoro. La frustrazione nasce da quel freno tirato che il nostro paese non riesce davvero a sbloccare.

Oggi, 8 marzo 2021 – secondo in pandemia – la realtà non lascia molte occasioni per sorridere, e quell’allegria lieve e pugnace che negli anni Settanta sembrava potesse rivoltare il mondo non è mai sembrata così lontana.

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A tenerla lontana, l’allegria, è il numero impressionante di donne italiane che in un solo anno hanno perso il lavoro (molto più alto di quello, pur drammatico, degli uomini).

A tenerla lontana c’è la cura della famiglia che la didattica a distanza ha di nuovo trasformato da piacere e segno d’amore in un obbligo scaraventato sulle loro spalle di madri, che forse mai ne erano state davvero alleggerite, se si eccettuano piccole nicchie di coscienza. 

A tenerla lontana, prima di tutto, c’è l’eco di quelle grida soffocate da compagni o padri violenti, che sono arrivate come pugnalate dritte al nostro cuore da dentro case divenute più impenetrabili con il lockdown e le restrizioni della mobilità, quando fuggire e chiedere aiuto – già di per sé tanto difficile – si è rivelato ancora più difficile, nonostante l’allarme sia stato subito lanciato e siano state attivate alcune misure di contrasto.

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A tenerla lontana, quell’allegria lieve e pugnace, è soprattutto il fatto che in un numero impressionate di casi nemmeno le grida si sono sentite più e da sotto le porte (metaforiche) chiuse le gocce di sangue femminile sono uscite per trasformassi in un rivolo ininterrotto, e poi diventare un fiume e un lago rosso dove affoga nella vergogna una nazione che non sa difendere quelle donne che non hanno la possibilità o anche solo la forza di farlo da sole.

Non può esserci assuefazione a questo dramma di morte. Alla fine i fatti di oggi ci dicono che la violenza sulle donne, come fenomeno antico e di vastissima portata, si potrà combatterla solo eradicandola dai luoghi nei quali per secoli si è alimentata e nascosta, ovvero dalle strutture profonde dei rapporti sociali, dalle pieghe delle relazioni tra i sessi e dei rapporti patriarcali e infatti gruppi di uomini stanno iniziando un percorso di presa di coscienza, perché la violenza maschile sulle donne li chiama tutti in causa.

Non c’è 8 marzo da festeggiare, quest’anno, se non perché il cuore delle donne e quello degli uomini batta di un suono collettivo, come fosse un cuore solo.

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Vedi storia del giorno della donna

 

 

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