Economisti ribelli ed economiste femministe: un libro sulle alternative al neocapitalismo

Da Marx e Keynes a Joan Robinson e Amartya Sen: nella “Breve storia dell’economia” Niall Kishtainy indica di chi possiamo fidarci e quali cambiamenti ci aspettano

Economisti ribelli ed economiste femministe: un libro sulle alternative al neocapitalismo
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23 Ottobre 2020 - 12.42


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di Giuseppe Costigliola

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La pandemia di Covid che ha investito il mondo ha posto l’umanità davanti ad un bivio: proseguire sulla strada della produttività a ogni costo, con la definitiva spoliazione delle risorse e dell’ambiente, o preservare il nostro futuro trovando un’alternativa al capitalismo selvaggio che caratterizza ormai l’intero globo. Si tratta di una scelta di natura economica, che determinerà i sistemi di aggregazione sociale, le relazioni interpersonali, i rapporti con la natura e con le altre specie.
A tal proposito risulterà utile e proficua la lettura di un volume pubblicato di recente, Breve storia dell’economia, dell’economista e giornalista Niall Kishtainy (Il Saggiatore, pp. 348, € 22). Si tratta di uno studio agile e godibile che, in capitoli dai titoli suggestivi e curiosi, riassume gli stadi economici attraversati dall’umanità, dagli scambi commerciali dei popoli primitivi alle prime riflessioni degli antichi filosofi greci, dal sistema feudale alle corporazioni medioevali, dal mercantilismo all’affermazione del sistema capitalistico, sino alla sua crisi e alla diseguaglianza globale del nostro tempo. Con linguaggio chiaro e comprensibile l’autore ci fa familiarizzare con i teorici del passato e del presente, riassume le loro non di rado straordinarie biografie, storicizza la genesi delle loro idee, illustra le varie scuole e tendenze, consentendoci di avvicinare una branca di studi spesso percepita come nebulosa o respingente. Anche perché, oltre ad affrontare concetti fondamentali del pensiero economico, il libro indaga interessantissimi campi di studio che sono entrati a far parte del suo universo in continua espansione, come la teoria dei giochi, la psicologia della percezione visiva, l’economia dell’informazione e quella comportamentale, a tal punto che procedendo nella lettura viene a sfaldarsi quel pregiudizio insito in alcuni per cui l’economia è una materia fredda e arida, se non noiosa.

Come nota l’autore, vi è una motivazione ben forte per farsi affascinare da questa disciplina: costruirsi delle idee proprie, non rimanere frastornati di fronte alle ambigue analisi propinateci dai vari “esperti” che a turno colonizzano i media, saper smascherare gli interessi di cui si fanno portatori. Insomma, per citare una delle rare economiste donne, la geniale Joan Robinson, “Lo scopo di studiare economia è imparare a evitare di essere ingannati dagli economisti”. Già, perché, al fondo, “l’economia è questione di vita e di morte”: essa può (e deve) diventare una forza di cambiamento per creare società più ricche, giuste e sostenibili, e ciò sarà possibile solo con l’impegno e la consapevolezza di tutti.
Da queste pagine appare infatti lampante che le idee economiche favoriscono alcuni gruppi sociali a discapito di altri, e che, storicamente, in molti casi gli economisti si fanno portatori di idee e valori funzionali a chi trae vantaggio da un determinato sistema, e quand’anche così non fosse, “persino quelli tra loro più audaci spesso sono costretti a pensare all’interno degli schemi imposti dai soggetti più potenti della società del loro tempo”.

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Per questo è ora più che mai importante che vi siano studiosi in grado di mettere in discussione i presupposti fondamentali dell’economia, di prendere le distanze dal pensiero comune, di smontare stereotipi e “storielle” spacciate per verità assiomatiche e di immaginare un futuro diverso. La parte più coinvolgente del libro è dedicata proprio a costoro, a economisti e “pensatori ribelli” del passato e del presente le cui idee “di norma restano escluse dai corsi di economia”, studiosi come Karl Marx, Thorston Veblen, Friederick Hayek, la già citata Joan Robinson, ma anche a figure ben note come John Maynard Keynes, il quale, lungi dal fondare una nuova teoria per il piacere di farlo, “puntava invece a utilizzare le nuove idee per rendere il mondo un posto migliore”. O, per venire a esempi più vicini a noi, a economisti come l’indiano Amartya Sen, per il quale lo sviluppo reale è ben più del mero sviluppo economico misurato con la produzione dei beni: è uno sviluppo umano, un concetto per cui più persone sperimentano la libertà che viene dall’avere le capacità necessarie per vivere bene, cioè prendere parte alle proprie comunità, essere istruite, in salute e al sicuro. O ancora come Hyman Minsky, colui che previde la grande crisi del 2008 elaborando il concetto di “capitalismo audace” e “capitalismo sconsiderato”, e che mise in guardia, inascoltato, dagli effetti devastanti di un rapace neoliberismo basato sulla deregulation.

Uno splendido capitolo è dedicato all’economia femminista e alla sua pioniera, Diana Strassmann, che ha messo in evidenza lo svantaggio delle donne nella distribuzione delle risorse, e il fatto che l’economia rimane una disciplina presidiata da maschi e piena di preconcetti, che appunto guarda il mondo attraverso un punto di vista prettamente maschile. E ancora, le sue colleghe Nancy Folbre e Julie Nelson, la quale propone un modo diverso per valutare le performance dell’economia, introducendo il concetto di provisioning: il successo economico è la capacità di provvedere alla vita di tutti in termini di cibo, salute e cura dei bambini e degli anziani, e non come mera ricerca della produttività.
Siamo nel campo dell’economia etica, cui l’autore dà opportuno rilievo, come anche alle critiche che da più parti si rivolgono all’economia moderna: che si occupa di efficienza più che di distribuzione; che, malgrado l’ampio impiego di scienze come la statistica e la matematica, produce astratte teorie tutt’altro che “scientifiche”, incapaci di cogliere la complessità del mondo reale, persino di avvicinarsi alla vita quotidiana, a tal punto da dare luogo a “distorsioni della realtà”. E, non da ultima, la constatazione secondo cui alla base delle equazioni degli economisti c’è un’idea conservativa, per cui il libero mercato, la concorrenza e l’iniziativa privata sono gli elementi che tra tutti contano di più: il cane che si morde la coda.

Particolarmente interessante è poi un capitolo dal titolo indicativo, Banchieri selvaggi”, in cui si spiegano in modo chiaro i famigerati hedge fund e il collasso del sistema finanziario mondiale del 2008 che fece crollare l’economia globale. Suggestivo anche il seguente, “I giganti del cielo”, che con un’immagine fulminante narra della progressiva crescita della diseguaglianza nella distribuzione del reddito nelle società odierne, e dove è illustrata la teoria dell’economista francese Thomas Piketty che spiega l’attuale gigantesca sproporzione tra un nugolo di ricchissimi e la moltitudine degli indigenti.

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L’argomento del capitolo conclusivo riguarda la sfida urgente cui l’economia si trova oggi ad affrontare: come proteggere il nostro pianeta, l’ultima risorsa da cui dipendiamo per la sopravvivenza. Una nuova società necessita infatti di una nuova visione economica, e di fronte a questa immane sfida le menti più visionarie e anticonvenzionali provano a immaginare un presente diverso, escogitare dei modi di produzione e di lavoro davvero sostenibili: soltanto una vera e propria rivoluzione culturale, una inedita percezione di noi stessi e la salvaguardia degli ecosistemi che ci consentono la vita potrà salvarci dall’autodistruzione.
“È un compito che ci investe tutti” ammonisce Kishtainy, che conclude la sua avvincente cavalcata tornando da dove era partito, gli antichi filosofi greci, che focalizzavano le loro riflessioni sulle questioni più centrali della vita umana, le stesse di noi contemporanei: Cosa serve per vivere bene in una società? Cosa serve alle persone per essere felici e soddisfatte? Cosa permette loro di prosperare realmente? “È da qui che l’economia ha preso avvio e, dopo tutte le dispute e le controversie, è da qui che deve ripartire ogni giorno”. Se vogliamo assicurare un futuro ai nostri figli.

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