Laura Spinney racconta perché la pandemia della “Spagnola” fu così devastante

Un saggio della giornalista ricostruisce cosa accadde un secolo fa e perché la “seconda ondata”, quando molte regole di contenimento cessarono, fu letale

Laura Spinney racconta perché la pandemia della “Spagnola” fu così devastante
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13 Aprile 2020 - 16.05


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di Marco Buttafuoco

L’influenza spagnola” di Laura Spinney (giornalista e scrittrice no fiction, penna del New Statesman , storica rivista della sinistra laburista inglese) è uscito nel 2018 (Marsilio, 348 pagg., costo ebook 7,99), centesimo anniversario dell’esordio della pandemia che avrebbe falcidiato la popolazione mondiale, aggiungendo i suoi nefasti effetti a quelli della prima guerra mondiale. La malattia, molto impropriamente definita Spagnola (in realtà la Spagna non soggetta alla censura di guerra fu il primo paese a comunicare notizia di questa nuova forma influenzale), esordì nella primavera del 1918, in piena guerra, ma fu alla fine molto più letale del conflitto; gli studi più aggiornati fanno intravedere un abisso popolato da decine di milioni di morti, probabilmente addirittura cento.
Naturalmente, a pochi mesi dall’entrata in scena di Covid19, non è possibile istituire paragoni statistici o storico scientifici fra i due eventi. Resta che, stabilite le dovute distanze critiche, i nostri giorni sono quanto di più vicino si possa immaginare al sinistro scenario dei due anni di Spagnola, soprattutto a quelle tredici settimane dell’autunno- inverno 1918-1919 che costituirono la seconda ondata, il picco dell’epidemia che sarebbe poi sparita del tutto nella primavera del 1920, senza che la medicina avesse trovato una cura per combatterla.

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La chiave migliore
Il libro della Spinney è forse una delle chiavi migliori per capire non tanto, o non solo, i dati scientifici ed epidemiologici della pandemia che devastò le vite dei nostri nonni e bisnonni, ma soprattutto della vita di allora, tanto nelle metropoli europee e americane quanto in oscure comunità dell’Alaska, delle Samoa, dell’India; per conoscere molte storie individuali (bellissime attrici russe, filantropi, scienziati, soldati, volontari, artisti brasiliani che guidano nella notte di Rio tram riempiti di morti). La Spinney ha una scrittura essenziale, avvincente e le sue descrizioni dei quartieri italiani di New York (con i relativi pregiudizi che scatenavano negli altri gruppi etnici e sociali di una città che stentava ad avere una lingua comune), della cosmopolita Odessa, delle miniere d’oro e diamanti del Sudafrica, sono difficilmente dimenticabili.

Qualche errore marchiano e parallelismi con l’oggi
In effetti, lo scopo della scrittrice è dare una sorta di narrazione a spirale, che parta dal centro per raccontare le vite singole per poi tornare al nucleo tematico. Un tentativo perfettamente riuscito dal punto di vista letterario e della divulgazione scientifica. Certo, ogni tanto, nell’ansia di enfatizzare il ruolo di quella pestilenza sulla vita, anche quella culturale dell’epoca, l’autrice incorre in alcuni errori marchiani. Attribuire la svolta di Igor Stravinsky e la rivoluzione dodecafonica al clima creato dalla Spagnola, è del tutto errato. Le Sacre du Printemps fu rappresentato nel 1913 e Arnold Shoenberg lavorò alla sua teoria da ben prima della Grande Guerra, anche se poi riassunse i suoi studi in un libro del 1923. Scivoloni gravi e poco scusabili che, tuttavia, non annullano l’impatto emotivo del volume e la sua sostanziale riuscita. Naturalmente la lettura (non facile psicologicamente, va detto, nella situazione attuale) suggerisce parallelismi e scarti importanti rispetto alla quotidianità dei primi anni del 2020. Provo a enuclearne alcuni.

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Le stime
Sostiene la Spinney che “negli anni venti il batteriologo americano Edwin Jordan stimò che i decessi per influenza spagnola erano stati ventuno milioni e seicentomila. Fu quindi subito lampante la sua eccezionalità. Era un dato superiore a quello dei morti della prima guerra mondiale … oggi sappiamo che la stima di Jordan era bassa, ma è stata considerata corretta per almeno settant’anni. Questo significa che per moltissimo tempo la specie umana ha avuto solo una vaga idea delle perdite che aveva subito. Jordan può essere perdonato.
Nel 1920 l’epidemiologia era una disciplina ancora giovane, i criteri diagnostici per l’influenza e la polmonite erano vaghi e molti paesi non tenevano il conto dei morti in tempo di pace, figuriamoci nel bel mezzo di una guerra che spostava continuamente i confini creando il caos. Dove i dati erano disponibili, si poteva calcolare l’eccesso di mortalità – il numero di decessi superiore a quello che ci si aspetterebbe in un anno «normale», o non pandemico –, ma questi dati nascondevano un’infinità di errori diagnostici” Oggi, fatte le debite proporzioni, la statistica e l’epidemiologia, tanto più raffinate di allora, commettono, almeno finora, errori simili, anche nei paesi più ricchi. Sapremo davvero mai quante persone muoiono oggi a causa del Covid, in Siria, in India, in Africa, negli stessi USA, in Brasile?

Misure di contenimento e secondo picco della mortalità
Dice ancora l’autrice: “Uno studio del 2007 ha dimostrato che alcune misure di Sanità pubblica come il divieto dei raduni di massa e l’obbligo di indossare le mascherine ridussero, in alcune città americane, il tasso di mortalità fino al 50% (gli Stati Uniti furono molto più bravi dell’Europa a imporre provvedimenti di questo tipo). Il problema principale era il tempismo: tali misure dovevano essere introdotte in fretta, e mantenute finché il pericolo non fosse passato. Se venivano tolte troppo presto il virus aveva a disposizione una fornitura fresca di ospiti immunologicamente naïfs e la città andava incontro a un secondo picco di mortalità.”. Allora le misure di contenimento sociale erano rese molto più difficili dall’assenza di grandi strutture distributive o da apparecchiature come il frigorifero o il telefono (per non dire di Internet). Oggi restare a casa è molto più facile ma, come allora arrivano segni di rifiuto.

Lasciato il contenimento la sanità crollò
“Con il passare del tempo subentrò la stanchezza anche tra coloro che all’inizio avevano rispettato le diverse misure. Non solo erano spesso un ostacolo a una vita normale, ma la loro efficacia sembrava quantomeno limitata … E a volte era difficile afferrare la logica dietro le restrizioni. Padre Bandeaux, un sacerdote cattolico di New Orleans, protestò per la chiusura delle chiese della città mentre i negozi potevano restare aperti. I quotidiani riportavano puntualmente queste disparità e le proteste che suscitavano. Nel 1918 i giornali erano il principale mezzo di comunicazione con il grande pubblico e avevano un ruolo fondamentale nel far accettare, oppure no, le diverse misure…. Ovviamente, giornali diversi esprimevano opinioni diverse, alimentando così la confusione. “E non c’erano i virologi, allora, aggiungerei“ … Con il passare del tempo anche giornalisti, stampatori, camionisti e fattorini cominciarono ad ammalarsi e le notizie censurarono sé stesse. L’obbedienza alle regole calò ulteriormente. La gente tornò ad affidarsi alla Chiesa, a distrarsi con le corse d’auto clandestine e a lasciare a casa le mascherine. A quel punto l’infrastruttura sanitaria pubblica – ambulanze, ospedali e becchini – prima vacillò e poi crollò”.

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Il dopo
Potrei riempire pagine e pagine di questi parallelismi: conviene leggere il libro, con la consapevolezza dei limiti che si porta dietro. Termino con qualche considerazione sul futuro. Il dopo spagnola fu segnato da fenomeni estesi di depressione, e da sindromi di stanchezza cronica. Eppure i nostri vecchi, ne uscirono, anzi rimossero, forse saggiamente il passato. Per loro la malattia (insieme alla morte) era la materia oscura dell’universo, così intima e familiare che non c’era nemmeno bisogno di parlarne. Scatenava il panico, cui seguiva la rassegnazione … E i genitori erano abituati a sopravvivere ad almeno alcuni dei loro figli.

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