L’attacco della Turchia di Erdogan al nord della Siria contro i curdi lo ha ricordato una volta di più: la pace non è scontata, troppe guerre colpiscono troppe terre, i popoli più deboli pagano spesso il prezzo più alto. Così non è inopportuno ma anzi necessario il Festival della pace di Brescia che, alla terza edizione, si tiene da venerdì 15 a sabato 30 novembre in più luoghi della città e con incontri, concerti, spettacoli, mostre. Dalla cooperazione internazionale al traffico di armi, dal femminicidio alle migrazioni, ampio è il raggio degli argomenti trattati.
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Le opere dalle carceri turche di Zehra Doğan
Tra le esposizioni si segnala quella che ripropone una lettura della questione curda vista e interpretata da un’artista e giornalista curda, Zehra Doğan dal titolo “Avremo anche giorni migliori – Zehra Doğan. Opere dalle carceri turche”: curata da ed Elettra Stamboulis, si inaugura venerdì 15 alle 19 all’Auditorium Santa Giulia con, tra altri, il presidente del Parlamento Europeo David Maria Sassoli. Resterà aperta fino al 6 gennaio 2020 con ingresso gratuito finché dura il festival della pace.
L’attivista curda sarà sabato 23 novembre al Museo Santa Giulia alle 16. Liberata il 24 febbraio 2019, Zehra Doğan è rimasta nella prigione del regime turco per 33 mesi. La “colpa” che le ha fatto avere la condanna nel paese autoritario di Erdogan? Propaganda terrorista (definizione della Turchia) per un disegno che illustrava le distruzioni compiute dall’esercito turco. Durante la detenzione, informano gli organizzatori, “Zehra ha continuato a esprimersi con ogni mezzo, scrivendo e dipingendo anche su materiali di recupero”. Esporre 60 sue opere fa giustamente riflettere sul rispetto dei diritti umani, sulla libertà di pensiero e di parola, sul ruolo dell’artista.
Scrive in proposito Roberto Cammarata, presidente del Consiglio comunale di Brescia (del Pd): «La cosa che più mi ha colpito approfondendo il percorso di Zehra Doğan è la sua volontà di interrogarsi e di interrogarci. A partire dalla sua identità, di donna, di curda, di artista. L’artista che si piega di fronte al potere – si chiede e ci chiede – può continuare a definirsi tale?
Per estensione la domanda diventa: fino a che punto le donne e gli uomini restano tali quando vengono resi schiavi, schiacciati dal dominio, privati della libertà e della dignità? E ancora: cosa diventiamo noi, donne, uomini e popoli, quando a prevalere di fronte all’ingiustizia e alla sopraffazione è l’indifferenza, se non addirittura l’accondiscendenza acritica al potere che ci espone tutti al rischio, per dirla con Étienne de La Boétie, della “schiavitù volontaria”?
Questi dipinti, queste opere prodotte in carcere sono una possibile risposta a tali domande, sono un grido di umanità resistente, un inno alla rivolta che da individuale si fa collettiva, in una vera e propria trasposizione artistica del motto camusiano “Mi rivolto, dunque siamo”».
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