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Ricordi da giornalista: quando Bologna aveva il "Cremlino" con l'Unità

Un libro raccoglie, con foto, le esperienze di dirigenti e militanti della più grande federazione comunista d'Italia. Onide Donati ricostruisce le vicende della redazione emiliano-romagnola e la fine del quotidiano fondato da Gramsci

Ricordi da giornalista: quando Bologna aveva il "Cremlino" con l'Unità
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6 Novembre 2018 - 10.30


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È uscito, per iniziativa della Fondazione Duemila (ove è confluito il patrimonio dell’ex Pds), il volume “Volti e storie – Il Pci nei ricordi dei suoi militanti/Bologna 1969-1991” (179 pagine, 15 euro). Il libro è curato da Giuliana Lusuardi, Lorenzo Capitani e Mauro Roda e viene venduto direttamente dalla Fondazione Duemila. Raccoglie testi e racconti in prima persona di dirigenti e militanti che si sono susseguiti in trent’anni a Bologna, la più grande federazione comunista d’Italia. Contiene un bellissimo corredo fotografico. Pubblichiamo qui il testo di Onide Donati, ex caposervizio della redazione emiliano-romagnola del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, non più in edicola dal 3 giugno 2017, testata dove ha lavorato per anni (nella redazione nazionale a Roma) anche il direttore di globalist.it Gianni Cipriani.

 

Onide Donati: “il Corriere della Sera del proletariato” *

Il contratto di lavoro era quello dei metalmeccanici e la comunità di persone che con quel contratto produceva “il Corriere della Sera del proletariato” (citazione di Togliatti) era orgogliosa di quel legame con la classe operaia. L’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci, era questo quando vi sono arrivato nel 1984, cronista di politica nella grande redazione di Bologna. Prima ero stato corrispondente da Rimini, prima ancora collaboratore più o meno occasionale ma col pallino di scrivere su l’Unità, opportunità che per primo mi diede Sergio Soglia, il partigiano Ciro che per tanti anni fu la colonna portante del giornale.
Mi chiamò a Bologna Emanuele Macaluso, forse il direttore a cui ho voluto più bene per la sua umanità, unita ad una notevole capacità di scrutare gli orizzonti lontani della politica a partire dalle trasformazioni sociali ed economiche. Mi richiamò, nel 2001, Furio Colombo, certamente il direttore più bravo che abbia conosciuto, raffinato liberal con lo sguardo sul mondo, mille incarichi passati in quasi tutti i continenti e intellettuale di sterminata cultura che rendeva ogni riunione di redazione un evento.
La domenica dell’Unità da “un milione di copie”
L’Unità dei miei esordi, quello dove giornalisti e poligrafici prendevano lo stesso basso stipendio, era il giornale della diffusione straordinaria di “un milione di copie” (vere) e il sabato pomeriggio chiudeva alle 16 perché le rotative non ce l’avrebbero fatta a stampare tanto; l’Unità era il giornale che dava il nome alle feste di popolo; l’Unità era un simbolo. Dentro quel simbolo ci sono entrato con caparbietà, non mi sono mai pentito di quella scelta neanche nei momenti più difficili (che si susseguivano con preoccupante frequenza, ahimè).
Bologna la redazione si trovava in via Barberia 4, a Palazzo Marescotti nella mansarda ristrutturata dall’architetto Pier Luigi Cervellati. Palazzo Marescotti fu il “Cremlino” del Pci dal dopoguerra in poi. Ospitava la “macchina” comunista bolognese ed emiliano-romagnola che contava oltre 100 mila iscritti nella provincia e quasi mezzo milione nella regione.
Quando il Pds non ce la fece più a reggere il peso di quella macchina, lo splendido monumento “barocco-comunista” fu venduto all’Università, che lo adibì a sede del Dams. L’Unità fu destinata in un anonimo condominio in via del Borgo San Pietro, a pochi passi dal piazzale est della stazione.
Dall’ultimo Veltroni a Colombo e Padellaro
Il 1995 fu un anno spartiacque, non solo per la vendita di via Barberia 4. La direzione di Walter Veltroni giunse alla fine e il giornale, dopo avere riempito le case degli italiani con una sterminata cineteca di cassette vhs e album di figurine Panini (“Se ti manca Pizzaballa”), aprì un altro quotidiano locale, Mattina, nelle città dell’Emilia-Romagna, in Toscana, a Roma… Doveva essere il grande salto, invece fu l’inizio della fine perché i conti non ressero.
Nella nuova Unità ci sono rientrato dopo la drammatica chiusura del 2000, quando mi sembrava un miraggio irraggiungibile. Lontani i fasti di palazzo Marescotti, la redazione di Bologna venne insediata in una storica casa del popolo a Santa Viola, nel complesso che ospitava anche il dancing Vallereno (anche questa storia chiusa).
La “seconda” Unità era ancora un simbolo, non più il Corriere della Sera del proletariato, ma un giornale molto radicale e netto, fatto con intelligenza e senza sconti ad alcuno. Non godeva più della “cinghia di trasmissione” del partito – che nel nuovo millennio era già entrato in crisi di militanza – ma funzionava, soprattutto grazie alla sua apertura alle tante sinistre dell’epoca, ai movimenti, ai girotondi. Era il giornale dai toni netti, il quotidiano che denunciò come nessun altro ebbe la forza di fare il massacro targato Berlusconi-Fini-Scajola al G7 di Genova.
Hanno ucciso quel simbolo
Poi il Pds non ancora Pd decise di licenziare Furio Colombo e il neonato Pd completò l’opera con il licenziamento di Antonio Padellaro, anche lui un signor direttore. Le fortemente identitarie feste de l’Unità virarono quasi ovunque (ma non a Bologna) in più neutre “Feste Democratiche” e quando scrissi sulla cronaca dell’Emilia-Romagna, di cui ero il capo, che no, così non andava bene, molti non gradirono. Ho evitato, poi, il dolore delle chiusure dopo il periodo più “leggero” di Concita De Gregorio e l’Unità in formato mini della pubblicità con la ragazza in minigonna.
L’Unità non c’è più. Non c’è più neanche la sinistra dei tempi andati, forse non c’è più la sinistra e basta. L’hanno ucciso, quel simbolo, più cause. Non dico solo la crisi dell’editoria ma anche la crisi dell’editoria; non dico solo Renzi ma anche Renzi; non dico solo la sinistra ma anche la sinistra (che non c’è più). Ed è un peccato. Perché quel simbolo è servito tantissimo per emancipare generazioni di ultimi quando era il “Corriere della Sera del proletariato” nel secolo passato, poi è servito tantissimo per unire con un filo rosso le tante facce della sinistra del nuovo millennio.
Prima e dopo l’Unità è sempre stata una palestra importante di professionisti dell’informazione, dove si sono formati i migliori giornalisti italiani. Al Corriere della Sera il direttore (Luciano Fontana) e il vice direttore (Antonio Polito) vengono da l’Unità; una fetta importante di Repubblica (Michele Serra, Luca Bottura, Ellekappa, tanti giornalisti…) viene da l’Unità; pressoché in ogni giornale e telegiornale c’è qualcuno cresciuto nell’Unità dove ho lavorato io.
Salvare almeno la memoria dell’archivio
Di quell’esperienza sopravvive poco, purtroppo. Solo una memoria sbiadita, unita a slanci generosi di “informazione di sinistra” che qualche giornalista volenteroso porta avanti con iniziative pregevoli on line (il quotidiano “Strisciarossa”) o con il tentativo di dare respiro storico alle pubblicazioni della stampa comunista con l’associazione “Sotto la mole”, costituitasi a Bologna, che si è impegnata insieme all’Istituto Gramsci dell’Emilia-Romagna, in una importante opera di raccolta e catalogazione del tanto materiale sparso e disperso in mille luoghi.
Realisticamente è impossibile che l’Unità torni ad essere l’Unità. Però dovrebbe essere possibile conservarne in modo dignitoso la sua memoria. Esiste, da qualche parte disperso nel web, tutto l’archivio de l’Unità, oltre novant’anni di vita del giornale, un pezzo significativo di storia d’Italia finito nelle mani di un privato imprenditore. È un patrimonio che, con un click e qualche spicciolo, potrebbe tornare nella disponibilità di tutti. Ridateci almeno quello.

* Già capo servizio della redazione de l’Unità Emilia-Romagna

Fondazione Duemila

 

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