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La penalista. “Contro la violenza sulle donne serve rieducare gli uomini a empatia e rispetto”

Già 12 femminicidi nel 2021. Parla l'avvocato Francesca Negri: “Con il lockdown più casi ma meno denunce”. La giornalista Antonella Boralevi ha scritto: “Per salvare le donne dobbiamo prima salvare gli uomini da loro stessi”

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3 Maggio 2021 - 16.05


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di Linda Salvetti

Non passa giorno, senza che l’elenco, il triste elenco, non si allunghi: a oggi, 2 maggio 2021, sono già 12 le donne uccise in questi primi mesi dell’anno. E stando alle cifre fornite dall’Istat, sono state 112 le vittime di femminicidi nell’arco dell’intero anno pandemico. Nel primo semestre hanno rappresentato il 45% del totale degli omicidi, che si sono compiuti in Italia. Erano il 35% dei primi sei mesi del 2019, e hanno raggiunto il 50% nei mesi di marzo e aprile 2020.

 

Di fronte a cifre tanto indicative quanto drammatiche, c’è da chiedersi quanta strada ancora ci sia da fare prima che le donne siano trattate da pari, sempre e ovunque, e quanto tempo ancora per superare le retoriche di una società di matrice patriarcale, che affonda le sue radici nella cultura della discriminazione e sottomissione femminile. Sono troppe le donne uccise in Italia dal compagno, dall’ex compagno o dai famigliari. Troppe le percosse, le violenze, gli abusi e i maltrattamenti così risonanti agli occhi della vittima all’interno di quelle ineluttabili mura domestiche, ma così silenziosi agli occhi delle istituzioni. Non sono le donne a dover imparare a difendersi ma gli uomini a dover imparare ad amare.

La violenza di genere si muove lungo un arco cronologico ampio. La stessa parola “femminicidio”, orma entrata a far parte del nostro abituale linguaggio, era in uso nell’Ottocento per indicare, già da allora, e stando a una ricerca dell’Ateno di Padova sta a indicare “l’uccisione delle donne da parte degli uomini per il fatto di essere donna.” Solo nel 1992, il termine fu introdotto ufficialmente nel linguaggio giuridico dalla criminologa femminista Diana Russel. Dal 2004, con l’antropologa messicana Marcela Lagarde, il concetto di femminidicio non riguardò più solo un fatto isolato, ma l’atto finale di un ciclo di condotte misogine “quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione.”

 

Come si può, dunque, prevenire la violenza contro le donne? A tal proposito ho raccolto il parere dell’avvocato penalista Francesca Negri, che ha contribuito con il suo lavoro alla nascita nel 1997 della storica associazione Svs Donna Aiuta Donna Onlus, cui il Comune di Milano ha conferito l’onorificenza dell’Ambrogino d’Oro. Poiché da oltre vent’anni offre supporto legale alle persone che hanno subito violenza sessuale, maltrattamento e stalking. Dice Francesca Negri “Di fronte ad una diminuzione delle denunce, sembrerebbero aumentati soprattutto i casi di violenza domestica durante i lunghi mesi di lockdown. Questo significa che le donne hanno avuto meno possibilità di accedere ai servizi “di supporto”, perché probabilmente costrette alla forzata coabitazione in casa, senza neanche solo poter immaginare di potere uscire; a volte per problemi economici, altre per rapporti costrittivi o situazioni pericolose di prevaricazione del loro aguzzino.” E poi aggiunge, “Per contenere questa violenza, sarebbe necessaria una ri-educazione al rispetto, all’empatia, al controllo della rabbia verso le donne.”

Di fatto, oggi, parlare di femminicidio significa parlare di un problema socio-culturale fondato sulla disuguaglianza di genere intrinseca nella nostra società.

Dal “sofà gate”, il vergognoso incidente di protocollo diplomatico avvenuto durante la visita del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel e del presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen in Turchia, a cui è stata negata la sedia d’onore accanto al presidente turco Erdogan; al video di Beppe Grillo, hanno riportato i riflettori su quel tipo di cultura dominante, un po’ sessista e maschilista, che tende, nel peggiore dei casi, a considerare la donna in un ruolo subalterno oppure da soggetto offeso a soggetto indagato. Insomma, tutto coincide nell’osservare che sono lunghi i passi da tracciare per ri-affermare il ruolo della donna nella società e nello specifico nel costruire una cultura davvero paritaria, perché a oggi, non è così.

 

Lo stesso appello si ritrova nelle parole che la presidente, sopra citata, Ursula Von der Leyern ha rilasciato, a pochi giorni dall’accaduto, durante la plenaria del Parlamento europeo: “Mi sono sentita ferita e lasciata sola: come donna e come europea. Non riesco a trovare alcuna giustificazione per il modo in cui sono stata trattata. Sarebbe successo se avessi indossato una giacca e una cravatta?”, e poi continua, “Come leader della Commissione Europea posso alzare la voce e farmi sentire. Ma che ne è delle milioni di donne che sono ferite ogni giorno, in ogni angolo del nostro pianeta, ma che non hanno né il potere né la forza per parlare. Tutti sappiamo che migliaia d’incidenti simili, la maggior parte dei quali di gran lunga più gravi, passano spesso inosservati, nessuno li vedrà mai, né ne sentirà parlare, perché non c’è nessuno che presta attenzione. Dobbiamo assicurarci che anche queste storie vengono raccontate, e che, una volta raccontate, si faccia qualcosa al riguardo. I crimini d’odio non sono accettabili”.

Nel reticolo delle notizie infelici, si legge a caratteri cubitali “che nel nostro paese una donna è uccisa ogni tre giorni.” Nemmeno il “codice rosso” (legge n.69/2019) che vorrebbe innovare la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere attraverso inasprimenti di sanzione, è riuscito a fermare la pagina nera dei femminicidi. Forse, come ha scritto la giornalista Antonella Boralevi “per salvare le donne dobbiamo prima salvare gli uomini da loro stessi” e non essere prigionieri dell’idea del maschile come sopraffazione. Perché questo no, non è amore.

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