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La nuova edizione delle Lettere di Gramsci: capolavoro letterario e classico del pensiero

Si tratta di un’edizione critica curata da Francesco Giasi, autore di una puntuale introduzione in cui si ricostruisce l’accidentata storia dell’epistolario gramsciano

La nuova edizione delle Lettere di Gramsci: capolavoro letterario e classico del pensiero
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18 Dicembre 2020 - 16.46


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La vicenda editoriale delle lettere scritte da Gramsci durante la detenzione nelle carceri fasciste è lunga e complessa, intorbidita dalla contesa per l’eredità letteraria e politica, che assunse talvolta risvolti drammatici. Essa ebbe inizio con la sua morte, giungendo tramite tortuosi percorsi sino ai giorni nostri.

La prima edizione vide la luce nell’aprile del 1947, in occasione del decennale della scomparsa, grazie all’impegno di Giulio Einaudi e Palmiro Togliatti. Era già allora fortemente avvertita la caratura morale e intellettuale del pensatore sardo, l’esigenza di porne la figura e il pensiero all’attenzione della cultura accademica e del dibattito politico. Le Lettere dal carcere riscossero un immediato successo: il libro vinse il premio Viareggio e divenne un caso editoriale. Vera e propria “scoperta”, come la definì Luigi Russo, l’epistolario venne considerato dai maggiori critici dell’epoca un’opera letteraria a tutti gli effetti, un memoriale che aveva “l’ampiezza del grande romanzo”, nelle parole di Calvino. Sulle pagine del Politecnico Vittorini sottolineò il prezioso lascito di quegli scritti, Benedetto Croce li definì patrimonio comune della cultura italiana: fu quindi subito chiaro che si trattava di un monumento umano e letterario, inestimabile fonte per conoscere la biografia intellettuale di un uomo eccezionale e di tutta una nazione, in un delicato momento storico.

Dal dopoguerra le edizioni delle Lettere si sono susseguite con periodici aggiornamenti, arricchite da ritrovamenti documentali, scoperte biografiche e relazioni prima trascurate, corposi versamenti dei familiari che aggiungevano ulteriori tasselli, ricerche che hanno prodotto un rinnovamento degli studi gramsciani: si tratta insomma di un libro in continuo divenire, specialissima sorta di work in progress.

In questo lungo percorso s’inserisce la nuova pubblicazione da parte dell’editore Einaudi, opportunamente inserita nella prestigiosa collana “I millenni”, ideata da Cesare Pavese proprio in quel lontano 1947 (Lettere dal carcere, pp. 1257, € 90).

Si tratta di un’edizione critica realizzata in collaborazione con la Fondazione Gramsci, curata da Francesco Giasi, autore di una puntuale introduzione in cui si ricostruisce l’accidentata storia dell’epistolario gramsciano, corredata di una nota al testo che chiarisce le modalità operative seguite, di una cronologia e di note esplicative dei corrispondenti e dei familiari coinvolti nel carteggio. Il volume raccoglie 489 missive, scritte da Gramsci dal 20 novembre 1926 al 23 gennaio 1937, e 22 documenti collocati in un’apposita appendice (istanze e richieste a varie autorità, tra cui quella di espatrio avanzata nell’aprile 1937). I testi inediti sono 12: 4 lettere, 3 cartoline, 2 telegrammi, 3 dei documenti in appendice; vi sono anche brani parzialmente inediti, e con pregevole lavoro filologico sono state portate alla luce parti mutile. Le lettere pubblicate per la prima volta non sono trascurabili, a partire da quella dell’8 aprile 1929 alla madre, che restituisce un profilo sconosciuto di Gramsci: esse gettano lumi sulla sua vita torinese e su alcune dolorose vicende familiari, mentre gli altri inediti ricostruiscono in maniera più precisa l’esperienza carceraria.

L’epistolario resta la migliore introduzione a Gramsci, via maestra per ripercorrerne l’itinerario intellettuale e fonte primaria per lo studio dei Quaderni, ma è anche l’opera più indicata per avvicinarlo al grande pubblico. Perché la sua lettura è un’esperienza davvero toccante. E lo è ancor più se si considerano le condizioni in cui queste lettere furono vergate, strappando ogni riga alla censura, da un prigioniero costretto a “scrivere di botto, nel poco tempo in cui mi vengono lasciati il calamaio e la penna” (19 marzo 1927). In quasi undici anni di detenzione Gramsci venne movimentato nelle prigioni di stato come un pacco postale, in lungo e in largo per lo Stivale, isole comprese. Gettato nelle celle più anguste, fu assediato da problemi d’insonnia, logorato dalle malattie, sottoposto ad un controllo tanto subdolo quanto pervicace. La scrittura era per lui un atto di sfida, affermazione di libero pensiero e strumento di lotta politica – l’unico rimastogli. Soprattutto, era un mezzo per sopravvivere, per comunicare con il mondo a cui era stato tragicamente strappato, per tenere in vita le relazioni umane, alimentare i propri affetti, ravvivare la fiamma ideologica dei compagni di partito, pur tra dubbi assillanti.

Sono lettere d’una coerenza assoluta, intima e tenace, sostenuta da una tempra da combattente, che danno corpo ad un capolavoro della letteratura epistolare, da cui appare lampante il fallimento di quel che si propose il pubblico ministero del processo che gli fu intentato, Michele Isgrò: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”. Animato da una volontà faustiana, Gramsci non si arrende alle difficoltà e alla malattia: porta avanti i suoi progetti, compulsa e fagocita tomi su tomi con prodigiosa rapidità, analizza con implacabile raziocinio situazioni in atto e un’incredibile varietà di temi, trancia lucidissimi giudizi politici, si dà pena con teneri slanci e incitamenti per l’istruzione dei figli lontani (il secondogenito mai conosciuto), infonde coraggio a familiari, compagni e conoscenti. Con la sua prosa cristallina, la profondità e l’impegno etico intransigente Gramsci ha composto un’opera immortale, assommando la figura dell’intellettuale e dell’uomo di stato, del fidato amico e del compagno di lotta, del padre e del figlio, del marito e del fratello.

Nei tempi foschi e grami in cui ci è dato vivere, infestati da squallidi figuri che han reso la politica un indecoroso spettacolo circense, che operano in un annichilente vuoto morale e nell’indifferenza per il bene comune, queste lettere vergate col sangue versato da un uomo “che non baratta per niente al mondo le sue convinzioni profonde” (12 settembre 1927) sono soffi d’aria purissima che spazzano via la mefitica atmosfera d’un Paese in rovina. La nuova edizione dell’epistolario gramsciano suscita dunque un timido ma tenace augurio: che l’umanesimo integrale e l’intelligenza che sprizzano da queste pagine, l’alto valore morale e civile che indora ogni parola, l’anelito ad un sogno inesausto di giustizia e di libertà che si leva da ogni pensiero siano fecondi germogli nelle giovani menti di cittadini comuni e di futuri dirigenti. Sarebbe il modo migliore di onorare la memoria di uno degli spiriti eletti del nostro Paese. Mai come ora ne abbiamo un disperato bisogno.

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